Il pareggio non esiste(Edson Arantes do Nascimento, detto Pelè)
Il primo lungometraggio del regista napoletano, presentato nella sezione Cinema del Presente alla Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia del 2001, vince il Nastro d’Argento per il miglior film esordiente e ottiene tre candidature al David di Donatello. Oltre che regista, Paolo Sorrentino è autore del soggetto e della sceneggiatura, nonché si diletta, insieme all’amico Nino Bruno e a Peppe Servillo (fratello di Toni e leader degli “Avion Travel”) nella stesura dei testi de “La notte” e di “Lunghe notti da bar” (musiche di Pasquale Catalano).
“L’uomo in più” non è soltanto una tattica calcistica (peraltro realmente applicata da Ezio Glerean, allenatore del Cittadella negli anni 90), bensì un’intuizione, un' ipotesi di rinascita, la speranza di essere riconosciuti come persone. “La tattica è il passaggio dal caos giovanile alla maturità” afferma Sorrentino – in un’intervista rilasciata a Massimo Coppola – e sebbene non più giovanissimi, i due protagonisti del film è proprio questo che tentano, fallendo compiutamente.
I titoli d’apertura scorrono sul profondo del mare, delle torce illuminano le prede nascoste fra le rocce, avvinghiato da un polpo uno dei due sub muore annegato. Nella Napoli degli anni 80 si svolgono parallele le storie di Tony Pisapia (Toni Servillo), cantante attempato di musica leggera (alter ego di “Tony Pagoda”, protagonista-narratore del romanzo di Sorrentino “Hanno tutti ragione”, finalista del Premio Strega 2010) e Antonio Pisapia (Andrea Renzi), capitano diciamo pure del Napoli (seppur mai il Napoli abbia avuto le casacche rosse). Mentre il primo si esibisce in un grande concerto (quello che Tony Pagoda tiene al Radio City Music Hall, con Frank Sinatra seduto in prima fila), il secondo segna un gol in mezza rovesciata, cosa rara per qualsiasi calciatore e ancor più per uno stopper.
I due Pisapia hanno tutto da perdere: e tutto pèrdono. All’apice delle rispettive carriere segue la disfatta: Tony, cocainomane e donnaiolo impenitente, è sorpreso a letto con una minorenne, dalla moglie e dalla madre (“Nel letto di tua figlia ti metti a fare queste porcate, ci dovevi morire tu in fondo a quel mare, stronzo cocainomane…Tu, ci dovevi morire, tu.”), mentre Antonio si rompe i legamenti durante un allenamento. Entrambi restano chiusi fuori dalle loro vite. Ogni speranza di rimettersi in gioco si rivela un’illusione. Passano quattro anni: Tony è assolto ma inesorabilmente macchiato, Antonio prende il patentino di allenatore, ma nessuno, tanto meno l’ex presidente (“Penso che il calcio è un gioco e tu sei un uomo fondamentalmente triste.”) sembra interessato alle sue innovazioni tattiche. Tony, ormai conscio che il successo non tornerà, mette insieme i soldi per rilevare la gestione del ristorante di un amico – è questo il suo tentativo di cambiamento, il suo “uomo in più” – ma poi scopre di essere arrivato tardi.
L’epilogo è l’incrocio delle due storie, corse finora parallele. Abbandonato dalla moglie, solo e incapace di reagire e resistere oltre, Antonio esce sconfitto dalla vita. Tony decide di vendicarlo, anche se la sua è una vendetta personale, volta a sfogare tutta la sua rabbia contro l’insensatezza della vita (“’a vita è ‘na strunzata”) e a espiare la colpa che da anni lo affligge per la morte del fratello. Fugge dalla polizia e poi si arrende tuffandosi in mare. Riemergerà anche stavolta, ma privo della libertà e sconfitto anche lui, dalla vita. Dunque il pareggio non esiste. Eppure, con quella risata come sospinta in cielo, è sempre Tony che si prende l’ultima parola.
Facendo già sfoggio di uno stile che poi affinerà nelle opere successive, Sorrentino affonda oltre l’apparenza delle persone e ne traccia le multiformi personalità, stavolta in una fase della vita comune a ogni essere umano: il declino. Ne dipinge le ombre, che già si insinuano nel momento del successo, della massima soddisfazione personale, che spietatamente precede la decadenza. Atmosfere cupe, sordide, un senso di solitudine quasi costante, si alternano al ritmo leggero e volubile degli anni 80. Una scelta di opposti certo non casuale. Come casuale non è l’oggetto d’indagine di Sorrentino, ovvero il lato oscuro di due colonne portanti del nostro paese: il calcio e la musica leggera.
Da un lato rovista dietro le quinte del pallone (come ancora poteva chiamarsi il calcio), laddove non è permesso entrare: gli spogliatoi (questo vale per gli anni 80 e anche per il 2001 – anno di uscita del film – ma non per oggi, che le telecamere hanno accesso ovunque), lo studio del presidente, il futuro che (neppure gli stipendi erano quelli di oggi) preoccupava la maggior parte dei calciatori, persino di serie A. Il personaggio di Antonio Pisapia, flemmatico, sensibile, “fondamentalmente triste” e il suo tragico gesto, sono un riferimento esplicito alla storia di Agostino Di Bartolomei, capitano della Roma degli anni 80.
Dall’altro lato rovista nel vissuto di Tony Pisapia (se Cheyenne in “This must be the place” è la fusione di Robert Smith e Ozzy Osbourne, Tony è un incrocio fra Riccardo Cocciante – la vocalità – Peppe Gagliardo – il temperamento – e Franco Califano – la spudoratezza e la cocaina –), personaggio estroso e ingestibile, emblema di una generazione di cantanti che – a differenza di molti loro colleghi dell’ultimo decennio – non erano confezionati dalle case discografiche secondo la domanda del mercato. Una luce piuttosto fredda e una fotografia moderna, senza eccessi, bilancia – evitando forse che il film scivoli nel grottesco – le scenografie kitsch tipiche degli ottanta (basti pensare alla casa di Tony) e gli attori stessi, che si muovono perfettamente a loro agio nei personaggi.
Superlativa interpretazione di Toni Servillo (attore protagonista anche ne “Le conseguenze dell’amore” del 2004 e ne “Il Divo” del 2008), memorabile il lungo monologo-riepilogo della sua vita, dinanzi all’attonito conduttore televisivo. Meno poliedrica ma ugualmente all’altezza, l’interpretazione di Renzi (sua l’idea di caratterizzare il personaggio con un lieve accento umbro) che oltre alla fisicità, assume il portamento e le precise movenze dei calciatori dell’epoca, robusti e impettiti ma non certo muscolosi come quelli attuali (come si vede nel suo ingresso sul terreno del San Paolo, scena peraltro girata “velocemente”, prima di una partita casalinga del Napoli). Sorprendente e di notevole impatto, nella scena che segue i titoli di apertura, lo sproloquio con cui il “Molosso” (Nello Mascia) si scaglia contro i suoi giocatori (tributo al “Petisso” Bruno Pesaola, celebre e focoso allenatore del Napoli, liberamente ispirato al sergente Hartman di “Full Metal Jacket”).
“L’uomo in più” non è un film sul calcio, né sulla musica leggera. La trama, ben strutturata anche da un punto di vista narrativo, è “solo” funzionale ad addentrarsi nell’animo umano, a scoprire cos’altro c’è dietro le apparenze. L’omonimia, il parallelismo, la coincidenza, sono “figure retoriche” che inducono a considerare la storia in un disegno più ampio. Le vicende di ognuno sono la rappresentazione terrena di una commedia che è scritta e per la quale siamo solo in minima parte decisivi. Ma in quella parte, seppur minima, ci si gioca tutto. Ne “L’uomo in più”, come nei suoi film successivi, Sorrentino descrive l’animo umano come votato all’eccesso. L’essere umano, libero di esprimersi, è incline a eccedere nel perseguimento delle proprie pulsioni, passioni, dei propri sentimenti. Ma spesso anche questa libertà non è altro che un’etichetta sociale, che nulla ha a che vedere con la propria essenza. Perduto tutto ciò che possedevano, i due protagonisti hanno la grande occasione per riscoprirsi, liberi da ogni etichetta. Ma l’illusione di essere “qualcuno” vince sull’opportunità di essere finalmente se stessi.
Come dice Tony Pagoda, in "Hanno tutti ragione": "Niente, io sono uno di quelli che, per ingordi di etichette deficienti, viene definito un cantante da night. Però io non sono un'etichetta. Io sono un uomo. Ma che dire, col senno di poi, non era meglio essere un'etichetta?"
21/11/2011