Prima non ne avevamo le prove. Oggi, a festival concluso e dopo aver preso nota di tutti i film italiani proiettati, in concorso e non, possiamo dire con certezza che "L'ordine delle cose" di Andrea Segre è probabilmente il lungometraggio che più di altri meritava il riconoscimento della selezione maggiore. Senza entrare nel merito di chi aveva la possibilità di indirizzare in altro modo il cammino del film all'interno della Mostra d'arte cinematografica di Venezia, sembra giusto puntualizzare i pregi che "L'ordine delle cose" si guadagna sul campo, mettendo a rischio la propria reputazione, con una storia che irrompe praticamente in diretta su una delle questioni più delicate e complesse della nostra epoca. Segre infatti colloca il protagonista della sua storia - un funzionario ministeriale - nel bel mezzo della questione libica e degli sbarchi di migranti provenienti dalle coste del territorio nord africano; e all'interno di quel complesso di attività politico-diplomatiche con le quali il nostro governo sta cercando (e le ultime notizie sembrano dirci con un certo successo) di convincere le autorità della Libia a collaborare per arrestare il flusso di persone che ogni giorno si imbarca in direzione del nostro paese, grazie alla complicità di chi lucra sul traffico illegale di vite umane mel Mediterraneo.
Prima ancora di analizzare il valore dell'opera vale la pena sottolineare come "L'ordine delle cose" non si sottragga alla sfida di mettere insieme due caratteristiche che un tempo appartenevano al cinema di impegno civile degli anni sessanta e settanta. La prima è quella di dialogare a viso aperto e senza mediazioni con la complessità del nostro tempo. E qui alludiamo non solo alla diversità di Segre che filtra la realtà con un registro più secco e diretto rispetto ai toni surreali e grotteschi a cui ci ha abituato il nostro ultimo cinema, ma anche al fatto di utilizzare gli aspetti pubblici della questione, quelli che riguardano il dibattito politico e dell'opinione pubblica, per fare il punto sul nostro privato, misurato indipendentemente dal problema dell'immigrazione, e nella difficoltà di dare seguito ai principi regolatori della nostra morale. Segre ne lascia intuire la sostanza attraverso la differenza che esiste tra l'immagine della famiglia di Corrado - funzionario del ministero degli interni incaricato per conto del ministro di occuparsi del problema - ripresa all'interno di una casa che sembra suggerirne la separazione materiale e spirituale della stessa dal resto del mondo (la vetrata attraverso la quale viene filmato il nucleo famigliare rende bene l'idea), e la mancanza di muri e pareti che caratterizza il centro d'accoglienza nel quale i profughi vengono detenuti.
Ciò che colpisce ne "L'ordine delle cose" non è tanto la scoperta di un paese che non riesce ad essere all'altezza dei suoi propositi e, nella fattispecie, il tentativo di Corrado di aiutare l'emigrata con cui entra casualmente in contatto (violando le regole del protocollo) e alla quale promette l'aiuto necessario per raggiungere il marito emigrato in Finlandia. Se fosse tutto qui "L'ordine delle cose" sarebbe persino scontato, talmente risapute appaiono le sue conclusioni. Diversamente, a fare la differenza nel lavoro di Segre è la credibilità dell'esperienza esistenziale del protagonista, il cui excursus, equamente diviso tra le procedure (più o meno lecite) messe in campo per convincere la controparte ad accettare le richieste dello Stato italiano e gli scrupoli e i dubbi che ne tormentano la coscienza, concorre a delineare un quadro narrativo continuamente in bilico e dal quale lo spettatore è preso ogni volta in contropiede. Va aggiunto come Segre, al contrario dei lavori precedenti, non vada alla ricerca di un realismo che favorisca una maggiore adesione da parte dello spettatore, preferendo una rappresentazione più costruita e, diremo pure, esemplare rispetto alla materia trattata. Prova ne sia la scelta di discostarsi dallo stile documentaristico che aveva marcato i suoi lavori più importanti per una messa in scena controllata, in cui la profondità psicologica dei personaggi viene bilanciata da un uso di campi medi e lunghi che - allontanando gli attori dalla mdp - segnalano una propensione di giudizio quanto più imparziale possibile rispetto alla materia trattata.
Supportato da interpretazioni di primo livello, sia per quanto riguarda la performance del protagonista Paolo Pierobon, che nei cosiddetti ruoli secondari (Giuseppe Battiston e Valentina Carnelutti), "L'ordine delle cose" non manca di sequenze - come quelle molto crude ambientate nel centro d'accoglienza libico - che faranno discutere, ma ancora una volta il sospetto di sensazionalismo viene meno di fronte all' urgenza di metterci di fronte al cosiddetto "ordine delle cose".
cast:
Paolo Pierobon, Valentina Carnelutti, Giuseppe Battiston, Fabrizio Ferracane
regia:
Andrea Segre
distribuzione:
Parthenos
durata:
112'
produzione:
Jolefilm, Mact Productions, Rai Cinema, Sophie Dulac Productions
sceneggiatura:
Andrea Segre, Marco Pettenello
fotografia:
Valerio Azzali
scenografie:
Leonardo Scarpa
montaggio:
Benni Atria
costumi:
Silvia Nebiolo
musiche:
Sergio Marchesini