Il campo lungo della distesa mortale di Dunkerque, gremita di soldati intrappolati e in attesa di un salvataggio che non si sa se o quando arriverà; quella visione d'insieme in cui ogni elmetto, ogni primo piano di soldato è il primo piano di uno, nessuno e centomila soldati, in cui non importa il singolo né l'attore che lo interpreta, ma domina la visione corale, è la cifra stilistica dell'ultima imponente opera di
Christopher Nolan. "
Dunkirk" era un film senza protagonisti, senza eroi e senza nemici. Era una rappresentazione tripartita di uno stato di tensione e di attesa angosciosa che diventava quasi esistenziale, che sembrava trascendere il suo contesto di ambientazione, non fosse stato per quel finale, che ci riportava a un presente storico definito, che trasmetteva indirettamente ai soldati di ritorno in Patria le parole che ora, in questo "Darkest Hour", sentiamo pronunciare direttamente dal faccione grasso e imbronciato del primo ministro britannico, dietro al quale, nonostante i notevoli strati di
make-up, si riconosce lo sguardo familiare e inconfondibile di un Gary Oldman che è il perno attorno a cui ruota l'intera pellicola.
Nel buio dello schermo, che rispecchia il buio di una situazione politica drammatica, un fiammifero si accende e all'improvviso in quel buio compare il viso trasformato di Oldman, intento a fumarsi il primo dei tanti sigari che costituiscono il
fil rouge della narrazione, assieme ai bicchieri di scotch, alle abbondanti colazioni e alle arringhe politiche. Dal buio, dunque, l'epifania di un volto: quello dell'uomo che avrà un ruolo fondamentale nel far risorgere l'Europa dalla morsa nazista, e che qui, metaforicamente, appare nel buio di un'inquadratura morta. In opposizione a "
Dunkirk", l'ultima fatica di Joe Wright si mostra subito nel suo essere un'opera incentrata sul suo protagonista, nel suo essere forzatamente biografica. Dietro alle quinte del film di Nolan, nei retroscena di quella spiaggia, ci fu soprattutto un uomo, il regista di quelle operazioni era un panciuto politico inglese e il suo nome, destinato a rimanere nei libri di storia, è Winston Churchill.
Nel 1940 Churchill viene convocato da Re Giorgio VI per formare un nuovo Governo, a seguito delle dimissioni dell'ex-Primo Ministro Neville Chamberlain. La situazione cui il Regno Unito è chiamato a far fronte è disastrosa: l'avanzata di Hitler in Europa procede inesorabile, l'intero esercito inglese è assediato in una costa francese, gli alleati scarseggiano e, in Parlamento, c'è chi sostiene che l'unica mossa possibile sia trattare la pace con la Germania, sfruttando la mediazione proposta da Mussolini. Ma la politica di Churchill è oltranzista e alle condizioni di pace tedesche preferisce rispondere con la continuazione della guerra: "Noi procederemo fino alla fine. Noi combatteremo in Francia, noi combatteremo sui mari e sugli oceani, noi combatteremo con crescente fiducia e crescente forza nell'aria. Noi difenderemo la nostra Isola, a qualunque costo. Noi combatteremo sulle spiagge, noi combatteremo nei luoghi di sbarco, noi combatteremo sui campi e sulle strade, noi combatteremo sulle colline; noi non ci arrenderemo mai".
Certo, a noi che conosciamo i risvolti finali della guerra, queste parole non possono che suonare come un esempio di coraggio e un'ostentazione di audacia militare, ma viste le assai precarie condizioni in cui il fronte alleato militava allora, non stupisce che molti videro in quel discorso una mossa suicida e nel suo oratore una vera condanna per il paese. Tuttavia, com'è noto, la Storia la fanno i vincitori e ciò basta a Wright e allo sceneggiatore Anthony McCarten, per donare un tono apologetico al film e per dipingere il protagonista come un eroe popolare. Sta in questa scelta il problema principale di una pellicola che assume presto un sapore diffusamente demagogico, che alla visione del politico come abile tecnico fa subentrare quella del politico come "uomo del popolo". Emblematica in tal senso la scena ambientata nella metropolitana londinese, in cui Churchill, spaesato, interagisce con operai, immigrati, donne e bambini nel tentativo di conoscere la loro opinione riguardo al conflitto in corso, per poi farla propria e portarla in Parlamento. Ancora una volta, alla rappresentazione della Storia e della sua sostanziale ambiguità, si preferisce l'esaltazione dell'eroe; la trasformazione della realtà, con tutte le sue sfumature, in mito.
Se però "L'ora più buia" non riesce a comunicare nulla di nuovo da un punto di vista dell'analisi storica e politica, fermandosi piuttosto a cliché populistici di facile trasposizione, il film merita comunque una visione, se non altro per l'ottima interpretazione di Oldman, la cui espressività non solo non risulta inficiata dall'ingombrante trucco, ma riesce comunque a esprimersi tramite piccoli gesti, dettagli della postura ed è capace di svolgere un encomiabile lavoro nella gestione della propria fisicità.
Inoltre, nonostante lo
script si attesti su un livello di mediocrità e sufficienza poco stimolante, la regia di Wright finisce per supplire a tale carenza di scrittura comunicando, tramite la gestione delle inquadrature, gli stati d'animo e le ansie dei protagonisti. Un esempio tra tutti: nei già di per sé claustrofobici sotterranei del gabinetto di guerra inglese, Churchill si chiude in una stanza e telefona al presidente degli Stati Uniti, in cerca di aiuti militari. L'inquadratura si stringe sul suo volto a mano a mano che il discorso si fa più serio. Roosevelt risulta avere le mani legate da dei trattati di pace: non può intervenire in alcun modo per aiutare gli alleati al di là dell'oceano. Nel momento in cui il protagonista realizza il proprio isolamento politico l'inquadratura cambia: in un campo medio la cabina telefonica occupa ora solamente la porzione centrale dello schermo, il resto è una cornice nera. Lo spazio d'azione si fa incredibilmente stretto, Churchill si appoggia al muro. In quel piccolo e angusto spazio, interamente occupato dalla sua ingombrante stazza, è chiamato a decidere le sorti di un intero paese. Attorno a lui, a circondarlo, l'oscurità.