Il valore di un film come "Jusqu'à la Garde" non riguarda solo il fatto di affrontare il tema delle separazioni famigliari e della guerra che si scatena allorquando uno dei due genitori fatica ad accettare le conseguenze di questa realtà. Ciò che colpisce, e che deve aver convinto i giurati della Mostra del cinema ad assegnare al film il Leone d'argento per la miglior regia, è la maniera con la quale Xavier Legrand riesce a evitare la retorica che di solito scandisce le discussioni riguardo al problema. Niente di tutto questo ritroviamo in "Jusqu'à la Garde" perché nel film il luogo della riflessione rimane fuori campo, assegnato allo spettatore quando le luci si accendono ed è tempo di lasciare la sala. Prima di allora c'è spazio solo per la tensione che procura il succedersi degli avvenimenti e l'incalzare della violenza - prima psicologica e poi materiale - messa in circolazione da Antoine (il minaccioso Denis Ménochet) nei confronti di Miriam, la ex moglie, e di Julien, il figlio minorenne, di cui la sentenza del giudice deve decidere i termini dell'affidamento.
L'inizio del film è a dir poco geniale, poiché il regista si diverte a confondere le acque con una lunga sequenza dibattimentale in cui la burocrazia del giudice e la dialettica tra le parti sembra aprire "Jusqu'à la Garde" a due possibili sviluppi. Il primo, proprio del legal drama, volto ad approfondire le ragioni dell'uno e dell'altro, filtrandole attraverso i parametri legislativi, il secondo, invece, inteso a scoprire, con le forme del thriller, se le accuse (di violenza) della moglie nei confronti del marito siano vere oppure no. Quindi, da una parte a ragionare in termini giuridici, analizzando se l'apparato normativo sia ancora aderente alle evoluzioni dell'istituto familiare, dall'altra a portare la storia dalle parti di un intrattenimento avvincente e popolare, legato alla capacità di tenere sospesa fino all'ultimo la reale personalità dell'accusato.
La scelta di Legrand ricade invece su una terza via, avulsa da mediazioni esterne e, al contrario, concentrata sulla storia con un'istintualità che gli consente di evitare le derive a cui un'operazione del genere si prestava. La controprova di quello che diciamo si misura a più livelli: da quello narrativo, riempito in toto dal meccanismo di azione-reazione che scaturisce dall'ossessione del genitore nei confronti della propria famiglia, a quello dei contenuti, privati di un sottotesto che ragioni sul tema degli abusi famigliari, qui sostituito dalla pragmatica evidenza con la quale il film mette in scena i fatti; e finanche dal punto di vista teorico, dove, tolte di mezzo le forme di genere, è il controllo del dispositivo drammaturgico a permettere all'opera di risultare appassionante e tesa senza bisogno di ricorre a spettacolarizzazioni che svilirebbero la serietà con cui viene affrontata la faccenda. Concentrandosi esclusivamente sulle emozioni dei personaggi, "Jusqu'à la Garde" non fa mistero - rispetto alle incertezze iniziali - sulla reale natura dei personaggi e, anzi, è proprio l'esasperazione delle rispettive posizioni, da quella di carnefice assunta dal padre, a quella di vittime incarnata dalla moglie e dal figlio, a fare precipitare la situazione, trasformando la disputa in un incubo ad occhi aperti. In questo senso, uno dei punti di forza del film è la capacità degli attori di far vivere sulle proprie facce la follia e la paura che li attanaglia, con una menzione speciale per Thomas Gioria, il quale, nei panni di Julien dà vita a un'interpretazione da brivido, sicuramente una delle più meritevoli della Mostra. Ispirato a una storia vera e sviluppato da un precedente cortometraggio girato dallo stesso Legrand, "Jusqu'à la Garde" ha vinto anche il premio Venezia Opera Prima "Luigi De Laurentiis" assegnato dalla Mostra dell'Arte Cinematografica di Venezia alla migliore opera prima, ed è ancora in attesa di una distribuzione italiana.
20/06/2018