Quando un film è sincero, la comunicazione con il pubblico riesce quasi sempre benissimo e lascia il segno quando si mischia a una buona dose di semplicità . Questo è il caso di "Kitchen Stories" di Bent Hamer, regista norvegese alle prese con il suo terzo lungometraggio autoprodotto dopo le passate esperienze di "Eggs" e "Water Easy Reach". E' la storia di Isak e Folke, ambientata in un piccolissimo centro abitato norvegese negli anni 50. Isak è un single sulla settantina, abita in una tipica casetta di un piccolissimo agglomerato di case norvegese e le sue uniche distrazioni sono l'amicizia con il vicino Grant e l'amore per il suo cavallo malato. Accetta la proposta di un centro di ricerca svedese e permette a un osservatore (Folke) di studiare il proprio comportamento in cucina, tassello di un puzzle finalizzato a tracciare un profilo standard sulle abitudini dei single nella stanza più "femminile" della casa.
E' un racconto di complicità, di gelosia, di amicizia incontaminata da implicazioni sessuali, nel quale si percepisce l'antica ostilità tra norvegesi e svedesi, ma che ne descrive soprattutto il lato umano, la predominanza dell'istinto rispetto ai doveri professionali, la semplicità e l'armonia dei valori rispetto alla complessità e la freddezza di comportamenti innaturali.
Le continue e ingegnose prospettive di osservatore/osservato/osservatore dell'osservatore fanno trasparire una sottile ironia nei confronti dei programmi alla "Grande Fratello", ironia che trasuda anche nei metodi matematici sugli studi umani affrontati dai centri di ricerche, embrioni delle attuali catene di produzione. Non sono, però, le allusioni che rendono questo lavoro credibile, sono, al contrario, le piccole cose e l'escalation di un rapporto tra due persone dall'approccio alla vita superficialmente così diverso ma invece talmente simile da raggiungere il parossismo nella scena finale.
Hamer usa pochissime parole per raccontarci la sua storia: almeno la metà del film non ricorre all'uso di alcun dialogo ed è proprio questa metà che risulta più divertente; è la vittoria del più antico linguaggio cinematografico. La sua tecnica di ripresa è semplice ed efficace, realizza inquadrature che precedono l'azione imponendone il giusto ritmo. La colonna sonora curata da Hans Mathisen offre spunti per un potenziale interessamento alla musica popolare scandinava e ci regala un motivetto di Jon Johansson che non si può non fischiettare all'uscita del cinema, soddisfatti e contenti.
05/06/2008