"Re in eterno" si intitolava un famoso ciclo di romanzi, scritto da T.H. White, fra gli anni trenta e quaranta e dedicato alla figura di Re Artù e ai suoi cavalieri della tavola rotonda. Per quanto riguarda il mitico sovrano medievale, in effetti, difficilmente un titolo poteva essere più azzeccato, dato che la sua popolarità col tempo non si è affatto appannata, rinnovandosi anzi di generazione in generazione. Il Novecento, attraverso libri, film, serie televisive, fumetti o radiodrammi, ha ovviamente contribuito in maniera non indifferente, ribadendo che il ciclo bretone sia una di quelle storie che non ci si stanca mai di sentire. Ovviamente, non tutte le versioni o le varianti della storia sono state baciate dalla medesima fortuna e il "King Arthur" diretto da Guy Ritchie, uscito in sala in da poco nelle sale, rientra fra queste ultime. Pubblico e critica in effetti hanno finora risposto in maniera poco entusiastica, ma se si tiene presente che sono in lavorazione una versione live fiction del classico Disney "La spada nella roccia" (ispirato proprio alla prima parte dell'opera di White) e vari altri progetti fra piccolo e grande schermo, forse non è il caso di imputare, almeno non totalmente, questo risultato ad una presunta stanchezza del pubblico nei confronti del ciclo bretone.
Il problema semmai sta nella maniera in cui Ritchie affronta la leggenda arturiana. Il suo "King Arthur: il potere della spada" (in originale la leggenda) è, come prevedibile, un racconto delle origini. Si narra di come il piccolo e futuro re abbia perso i genitori, sia scampato alla morte, allontanandosi fortuitamente dalla nativa Camelot. Naturalmente però si spiega anche come scoprirà la verità sui suoi natali, come conquisterà la leggendaria spada Excalibur e riavrà la corona, strappandola al solito usurpatore dall'animo nero. Il regista di "Rock 'n rolla" lavora su una sceneggiatura che lui stesso firma insieme a Joby Harold ("Edge of Tomorrow") e al produttore Lionel Wigham (ormai suo partner professionale abituale) con l'intento, sembrerebbe, di rendere il personaggio più vicino alle nuove generazioni. Perciò il piccolo Artù non viene allevato da pastori gentili ma si ritrova a Londinium (Londra), allevato in un bordello, e negli anni diventa un giovanottone muscoloso, mirabilmente pettinato, che vive di espedienti comandando un manipolo di compari. Il tutto è declinato in quella modalità adrenalinica che è un po' la cifra stilistica dell'inglese Ritchie. In effetti, resta da chiarire se fosse necessario tale svecchiamento, consideratoa la passione intorno alle figure del ciclo bretone di cui si diceva prima, pur essendo comprensibile che a raccontare sempre le stesse storie un regista possa temere di stancare. Inoltre Ritchie con "Sherlock Holmes" aveva dimostrato che aggiungendo azione e una buona dose di energia/ironia, anche un personaggio ultracentenario poteva sembrare quasi nuovo. Purtroppo stavolta l'effetto non si è rivelato altrettanto positivo e riuscito. Ovviamente il King Arthur di Charlie Hunnam non può essere paragonato allo Sherlock di Robert Downey Jr., anche se il biondo attore di "Sons of Anarchy" è piuttosto simpatico ed grintoso in questa versione alquanto gaglioffa e se da una parte l'esito del film non aiuterà la sua carriera hollywoodiana, sarebbe ingiusto gli alienasse occasioni interessanti (fortunatamente che col tempo ha saputo conquistare la fiducia di Guillermo Del Toro e James Gray). Alcuni critici hanno ritenuto che uno dei problemi principali della pellicola sia la mancanza di figure femminili di rilievo, visto che nella storia non è prevista la Regina Ginevra, proprio perché di Artù si deve raccontare la giovinezza e non gli amori (neanche questo in effetti probabilmente ha aiutato). È vero, certo, che i personaggi femminili sono pochi e spesso secondari ma va detto che quelli maschili, anche se tradizionalmente importanti, non hanno una sorte migliore (e questo nonostante Ritchie abbia a disposizione attori di qualità come Eric Bana, Aiden Gillen, Annabelle Wallis e Djimon Hounsou). Re Uther Pendragon e la regina Igraine escono di scena rapidamente, Merlino viene rammentato e di lui sostanzialmente si vede solo l'ombra, Mordred e la Signora del Lago appaiono fugacemente, un certo Kung Fu George ha più spazio di Percival e Tristano (di Lancelot neanche l'ombra) e il posto di Morgana è preso da una maga interpretata dalla spagnola Astrid Bergès-Frisbey. Aiuta Artù perché il cattivo usurpatore (un Jude Law, già dottor Watson per Ritchie e appena reduce dal giovane papa di Sorrentino, tutto nefandezze e tormenti) ha bandito i maghi e negromanti (pur essendo un po' stregone pure lui), però mancando l'amore incestuoso fra i due fratellastri (troppo audace per il pubblico contemporaneo?) il personaggio risulta meno significativo.
Il film avrà dovuto inoltre tenere conto del successo crescente del "Trono di spade" e infatti la scenografa della serie Gemma Jackson è stata reclutata per ricostruire Camelot o la Londra medievale ma il film, anche a causa della fotografia tetra di John Mathieson (collaboratore storico di Ridley Scott), finisce per risultare, anche sul piano formale oltre che su quello narrativo, privo di un vero fascino, pieno di incantesimi ma senza magia.
20/05/2017