Si è parlato di un Almodóvar inedito, almeno in parte. Effettivamente il film segna uno scarto rispetto alle pellicole più recenti (specie le ultime due) ed appare il suo più significativo dai tempi di "Volver" (2006); ma "Julieta" è una tappa, in un percorso all'insegna dell'essenzialità e dell'asciuttezza, che è carsico all'interno del cinema di Almodóvar, con radici remote in "Che cosa ho fatto io per meritare questo?" (1984), e che proprio in "Volver" aveva trovato un vertice. Si tratta di film girati "in minore" a dispetto della ricchezza dell'intreccio. Allo stesso canone apparteneva anche "Gli abbracci spezzati" (2009), forse il film più sottovalutato del regista.
Ispirato ai racconti di Alice Munro "Fatalità", "Fra poco" e "Silenzio" (dalla raccolta "In fuga"), il film non aggiunge elementi di novità alla poetica di Almodóvar, ma ruota intorno a una molteplicità di suoi temi tipici che, come sintetizzati e cristallizzati, vengono qui declinati nella forma del doppio. Binomi inscindibili, come nella vita è inscindibile la felicità dal dolore. In "Julieta" non c'è felicità che non si accompagni a una perdita: dilazionata per sé, o immediata per qualcun altro. A questo primo binomio si accompagna quello fra giovinezza e maturità. Sul treno, da giovane, per sottrarsi a un uomo più anziano che cerca in lei l'estremo appiglio per evitare il suicidio, Julieta finisce tra le braccia di Xoan, che diverrà suo compagno. Il signore del treno finirà per suicidarsi. Altro binomio è quello fra sesso e morte, eros e thanatos. "Julieta" è un film costellato di morti in cui, specie all'inizio, sembra che la morte amplifichi la bramosia sessuale. Muore l'uomo sul treno, e di lì a poco Julieta e Xoan fanno l'amore appassionatamente; muore Ana, la moglie invalida di Xoan, e di nuovo fra i due si scatena la passione.
Un tema recuperato direttamente dalla Munro corrisponde a un'ossessione di Almodóvar, qui ribadita e sottolineata: la propensione maschile alla poligamia. Anche in essa si dà duplicità: la doppiezza del maschio ma anche l'archetipo delle due donne dell'Odissea, Penelope e Calipso. Nei racconti della Munro la figlia di Juliet si chiama proprio Penelope: Almodóvar ne cambia il nome in Antìa ma recupera il riferimento all'Odissea quando, in una scena scritta di suo pugno, Julieta, insegnante di lettere, spiega ai suoi studenti che Calipso, oltre a se stessa, offrì ad Ulisse l'eterna giovinezza. Gli uomini di Almodóvar hanno un bisogno irrinunciabile di compagnia sessuale, e spesso la cercano in donne più giovani (il padre di Julieta, accompagnandosi a un'amante mentre la moglie è invalida, duplica Xoan). Non si tratta semplicemente di basico istinto carnale: è il miraggio dell'eterna giovinezza, un esorcismo della morte, ed esercita un fascino irresistibile sulla donna. Almodóvar si rifà largamente al mito, alla tragedia greca (importante il ruolo svolto dal destino); ragiona per archetipi e osserva le sue creature con un cannocchiale rovesciato, come da una distanza siderale. L'eros viene inquadrato come una potenza mitologica, che è restituita in tutta la sua forza dalle pesanti statuette falliche realizzate da Ava. L'uomo in tutta la sua virilità, centrale e imprescindibile per la donna.
Il binomio giovinezza/maturità trova incarnazione nelle due Julieta: la giovane interpretata da Adriana Ugarte e quella matura affidata a Emma Suárez. La scena in cui le due attrici si passano il testimone segna un momento di rinascita dopo un periodo di profonda depressione: ma anche se di nuovo forte e vitale, la nuova Julieta è una donna invecchiata, cui si è spento il sorriso. È una scena da antologia (richiamata significativamente dalla locandina), tra le più belle del cinema di Almodóvar. Stupefacente la fluidità con cui il regista piega alle proprie esigenze espressive un espediente antico come quello di affidare a due attori adulti il ruolo del medesimo personaggio in età diverse: le due attrici, non troppo somiglianti, paiono per un attimo sovrapporsi (viene in mente "Persona" di Bergman) nell'istante in cui l'asciugamano retto da Antìa si solleva dal volto nuovo di Julieta. È perturbante: il volto che era familiare allo spettatore appare improvvisamente diverso. Prende forma il concetto freudiano di unheimlich, in cui il doppio svolge un ruolo chiave.
La rinascita è tema ricorrente nei film di Almodóvar condotti nel segno della speranza e dei finali aperti ("Parla con lei", "Volver"). Almodóvar omette il disincanto che permea i racconti della Munro, ne converte la rassegnazione nell'anelito di Julieta a rimpossessarsi della vita, forte delle consapevolezze che mancavano alla se stessa del passato. Per farlo, è necessario voltarsi indietro: occorre, ancora, volver. "Julieta" è un nostos, un ritorno, uno scavo nella memoria per riallacciare il rapporto interrotto da decenni con Antìa. A fare da filo conduttore, quella lunga lettera che segue lo scavo nella memoria, scritta per provare a interrompere un silenzio che dura da più di dieci anni. "Silenzio" si intitola l'ultimo dei tre racconti della Munro (e così doveva chiamarsi il film, se il regista non avesse optato per "Julieta" per non sovrapporsi all'omonimo progetto in corso di Scorsese): nel silenzio e nell'oblio son trascorsi gli anni. La consapevolezza di ciò che ha segnato la vita giunge spesso con grande ritardo. Julieta, ad esempio, non sapeva che anche la figlia conosceva ciò che la madre aveva scoperto. Così, a causa del non detto, le vite di madre e figlia si son svolte nella lontananza reciproca. Il destino dà il suo contributo facendo in modo che episodi determinanti avvengano mentre non si è presenti (la propria assenza nel momento fatale è il motivo per cui Antìa ha addossato anche a se stessa la colpa per la morte del padre).
Almodóvar insiste a dirci che non si dà maturità senza lo scavo interiore, il recupero della memoria e l'elaborazione di una colpa. E il senso di colpa è spesso legato a una felicità che ci era stata concessa, di cui costituisce come lo scotto.
Solo con gli anni si potrà correttamente mettere a fuoco "Julieta", valutarne il peso specifico nel corpus dell'opera di Almodóvar. Occorre riconoscere certamente che la sua asciuttezza ed essenzialità non sono esenti da ridondanze. Se il regista/sceneggiatore padroneggia in maniera consumata i trucchi per un intreccio ricco di colpi di scena, li dosa in modo così ordinato e preciso da sfiorare lo schematismo - si pensi al ritorno in scena di Lorenzo (interpretato da Dario Grandinetti, uno dei pochi attori che incarnano figure maschili positive nel cinema del regista). Il non aver rinunciato al gusto per la costruzione frastagliata del plot, in un film come "Julieta" potrebbe aver appesantito inutilmente le sottigliezze dello scavo condotto in profondità sul personaggio. Ci sembra sia precisamente questo il terreno su cui è chiamato a misurarsi il giudizio critico. I detrattori tenderanno a valutare quale limite o difetto l'intrinseco contrasto fra movimento in levare e volontà di non rinunciare all'accumulo. A giudizio di chi scrive, al contrario, proprio in quel contrasto risiede la peculiare cifra stilistica di un film, non esente forse da una certa meccanicità di scrittura, in cui tuttavia Almodóvar ha portato a un nuovo stadio di maturazione una capacità, che è solo sua, di coniugare in tonalità minore il gusto per una narrazione che non vuole rinunciare all'eccesso.
cast:
Daniel Grao, Pilar Castro, Bianca Parés, Darío Grandinetti, Michelle Jenner, Rossy de Palma, Adriana Ugarte, Emma Suàrez
regia:
Pedro Almodóvar
distribuzione:
Warner Bros.
durata:
99'
produzione:
El Deseo
sceneggiatura:
Pedro Almodòvar
fotografia:
Jean-Claude Larrieu
scenografie:
Antxón Gómezs, Carlos Bodelóns, Federico García Camberos
montaggio:
José Salcedo
musiche:
Alberto Iglesias