John Carter è un eroe vecchio stampo: arriva da un altro pianeta (stavolta l'alieno proviene dalla Terra) e per la minore forza di gravità di Marte (Barsoom nella lingua locale) si scopre dotato di una forza e di una capacità di salto fuori dal comune, che lo porta a essere immediatamente adottato da Tars Tarkas, jeddak dei Tharks.
Carter, abile spadaccino e decorato di guerra, veterano della settima cavalleggeri (come il suo creatore letterario) voleva fuggire da un enorme senso di colpa (non essere riuscito a proteggere la sua famiglia, finita trucidata) cercando solo oro e ricchezza: per uno strano caso si ritrova catapultato su Marte e, dopo la conoscenza della principessa-guerriera (e scienziata) Dejah Thoris, finisce al centro delle trame politico-belliche che dominano Barsoom e che la stanno conducendo verso la catastrofe. I Therns, apostoli immortali della dea, che viaggiano tra i mondi dirigono le azioni degli uomini, ne compiono i destini affinché i loro segreti rimangano tali: alla fine in tutti i pianeti si ripete la stessa storia, confessa Matai Shang a John. Il terrestre è quindi l'uomo che cerca di fermare tutto ciò, cambiando "il suo cuore" e sposando una causa non sua, ma appartenente alla bella e grintosa Dejah Thoris della quale l'eroe immancabilmente si innamorerà, ricambiato.
È affascinante notare come il vero "ritorno a casa" del protagonista non sia il costrittivo ritorno sulla Terra, bensì l'agognata e, purtroppo, ellittica ricerca di Barsoom, i cui tentativi si prolungano per gli omerici dieci anni. L'
homecoming dell'eroe è un tema fondamentale dell'epica mitica senza nemmeno dover arrivare all'Odissea, e il cinema ci ha fornito vari esempi di tali narrazioni, soprattutto grazie al western. In "John Carter" il
topos è voltato di prospettiva: qual è la vera casa/patria del protagonista? Non è un caso che a dirigere questa mega-produzione della Disney-Pixar vi sia uno degli uomini di punta del team di John Lassater, quell'Andrew Stanton regista di "Alla ricerca di Nemo" e di "
Wall-e"; il primo basato su una miniodissea marina e l'altro su un grande ritorno a casa, di un'umanità alienata dal proprio luogo natale. Il progetto di "John Carter" stava molto a cuore al regista Pixar, oltre a essere un evento di per sé, visto che porta finalmente al cinema la serie di Burroughs che sin dagli anni 30 si tenta di trasporre per il grande schermo: il primo a essersi cimentato inutilmente fu
Bob Clampett che nel 1931 ne voleva fare il primo lungometraggio animato. Stanton, forte di una grande macchina produttiva, e di una sceneggiatura che poteva contare sulla penna sua e dell'amico Mark Andrews oltre che del romanziere Michael Chabon ha portato a compimento questo piccolo sogno infantile.
Il montaggio di Eric Zumbrunnen (collaboratore di fiducia di Spike Jonze) riesce a staccare ellitticamente sulle sincopate vicende di Carter sulla Terra e ad aprirsi a grandi panoramiche e a campi lunghi negli scenari spettacolari di Barsoom: sotto un profilo tecnico "John Carter" ci dice che Stanton sa come girare anche i film in
live action e conferma il talento artigianale di una delle migliori
factory del decennio, seguendo a ruota il nuovo esordio del Brad Bird di "
Mission: Impossible - Protocollo fantasma". Ogni aspetto è curato sin nei minimi dettagli anche grazie a effetti di
computer graphics di eccellente livello (si noti l'espressività dei Tharks, il cui capo è interpretato da Willem Dafoe). La sceneggiatura ha naturalmente il tipico imbarazzo di dover condensare un lungo romanzo in un blockbuster dalla durata condiscendente ai bisogni fisiologici del grande pubblico (facendo contento
Sir Alfred) e per forza di cose va di corsa tra
voice over in apertura e passaggi didascalici per far capire meglio "cosa sta accadendo".
Il lirismo delle composizioni di Michael Giacchino regala una marcia in più ad alcune delle sequenze più epiche ed entusiasmanti, dove le volute della macchina da presa di Stanton si fanno più virtuose nel riprendere gli imperiosi salti di Carter, movimenti elastici e leggiadri in cui si percepisce quasi l'assenza di peso corporeo, o nei violenti combattimenti contro i Tharks.
Prototipo di un eroe coraggioso e probo che sceglie da che parte stare rischiando anche la vita, John Carter, e la saga di Burroughs, hanno costituito scenari narrativi archetipici pieni di commistioni tra avventura e fantascienza, talmente moderni da essere stati saccheggiati per decenni, avendo influenzato l'immaginario di fumettisti, illustratori, scrittori e registi di diverse generazioni. Siamo di fronte a uno di quei rari casi in cui l'enorme raggio di influenza avuto nella cultura pop, ne ha quasi fatto dissolvere la memoria: il rischio conseguente è che un film come "John Carter" nel 2012 possa apparire come fuori tempo massimo, soprattutto dopo una strategia di marketing che, almeno in Italia, non ha portato ad alcuna attesa pubblicizzandolo quasi come un clone di film-videogame alla "Prince of Persia". Come fare a capire che questo
adventure fantasy sta alla base di personaggi come Conan e Superman, che ha ispirato George Lucas (con "Star Wars") e James Cameron (con "
Avatar") e tanti altri ancora? "John Carter" finirà per piacere poco ai giovani di oggi, che lo bolleranno - non senza giustificazioni - come "prevedibile" e "scontato". Eppure si conquisterà ugualmente un posto particolare tra le precotte "grandi produzioni" di ultima generazione, se non altro per il suo fascino retrò e "fuori tempo massimo", per una costruzione dei caratteri e della narrazione tutta d'un pezzo, benché suscettibile ad ulteriori sviluppi e miglioramenti. E chissà che proprio un sequel - l'attore Taylor Kitsch ne parla già - possa far compiere un salto di qualità a questo sentito progetto di Andrew Stanton.
10/03/2012