La violenza e la miseria ai margini della più profonda provincia americana: sono questi i temi dominanti di "Joe", nono lungometraggio di David Gordon Green, presentato in concorso alla settantesima Mostra del Cinema di Venezia. La provincia in questione è quella del Texas, che il regista conosce molto bene avendovi passato l'infanzia e gli studi universitari. I paesaggi però non sono quelli tipicamente texani che lo spettatore è abituato a vedere al cinema: niente deserti, niente paesaggi assolati, ma unicamente distese di boschi e un cielo plumbeo.
Interpretato con insolita moderazione da un Nicolas Cage con barba, Joe è il classico duro e gestisce con bonaria autorevolezza una squadra di taglialegna piuttosto ambigua e legata a speculatori. Le persone che gravitano intorno a Joe e che lo amano lo invitano spesso a crescere ma lui continua a vivere a modo suo, libero da regole, a volte violento, sempre attaccato alla bottiglia o alla sigaretta (e il film lo mostra sempre con un bicchiere o una sigaretta tra le dita), in un inesorabile percorso autodistruttivo. La sua vita ruota, monotona e senza speranze, tra casa e lavoro e come uniche alternative: un supermarket, giusto per biascicare qualche battuta con il vecchio al bancone, e un bordello.
Quando torna a casa dal lavoro, l'unico ad accoglierlo è il suo cane, chiassoso e sempre legato alla catena. Nessun altro entrerà in quelle quattro mura di legno, fotografate sempre con luci tenui e avvolte da ombre incombenti: un ambiente in sospeso che sembra non conoscere alcuna forma di accoglienza (anche l'amica che si fermerà da lui, non troverà un posto dove piantare radici).
Intorno c'è un mondo di squallore e miseria, popolato da figure spinte da istinti primordiali; un barlume arriva con un ragazzo che sembra materializzarsi dal nulla e che incomincia, lentamente, ad entrare nella vita di Joe, prima nella squadra dei taglialegna, poi nella vita personale fino ad entrare in casa.
Il film ci aveva fatto conoscere questo ragazzo (interpretato con profondità da Tye Sheridan, premiato come miglior esordiente con il premio Marcello Mastroianni) già dalla prima scena: seduto di tre quarti, redarguisce con violenza il padre. E questo padre, così violento e alcolizzato, incarna proprio uno dei personaggi più sgradevoli del film, spesso ritratto con le mani nei bidoni della spazzatura in una ricerca disperata di qualche bottiglia ancora piena: è l'incarnazione dell'abiezione, un uomo allo stato animale.
Nella prima parte l'eclettico David Gordon Green racconta tutto con estrema libertà sia nella progressione narrativa (dove le azioni sono spesso prive di una reale causa) sia nel rappresentare le più sordide bassezze. Al centro c'è sempre Joe, mentre intorno viene narrato un fitto intreccio di varia umanità crudele e selvaggio, fatto da comprimari o mere controscene. Tutto questo è condito da atmosfere cupe e virate alla follia che rimandando a quelle dei grandi romanzi di Corman McCarthy, impreziosite da una colonna sonora ambient di Jeff Mcllwan, a volte quasi ipnotica.
Gordon Green cerca in qualche modo di disattendere le attese dello spettatore mostrandoci i sacrifici che attraversa il ragazzo, vessato soprattutto dal padre, senza far intervenire Joe (per questo, è esemplare la scena del pestaggio del ragazzo da parte del padre con Joe immobile che non interviene). In fondo tutto il film può essere letto come una ricerca di una paternità che però nessuno sembra incarnare per davvero: paradossalmente l'unica figura davvero matura è proprio quella del ragazzo.
Arriverà in ultimo il riscatto da parte di Joe che vendicherà ogni sopruso con un drammatico finale a colpi di pistola. Qui è da dire che il film scivola in un epilogo molto più convenzionale e prevedibile, ed è questa la parte più debole di tutto l'impianto.
Alcuni hanno voluto paragonare questo finale con quello di "Gran Torino" di Clint Eastwood, soprattutto in una scena dove vediamo il ragazzo guidare da solo con accanto il cane di Joe. Forse sarà stata una citazione volontaria però siamo lontani anni luce dalle riflessioni sulla morte, con implicazioni cristologiche, del film di Eastwood. Nonostante non disponga di implicazioni così alte, il film di Gordon Green rimane però potente e da non sottovalutare.
24/08/2014