Chissà se è vero che non si esce vivi dagli anni 80, come cantavano gli Afterhours. Ha molte debolezze, ma anche diversi pregi, la seconda parte del film col quale Muschietti è chiamato alla trasposizione del libro di culto di Stephen King. Il difetto maggiore è lo stesso che affligge la modesta miniserie del 1990, vale a dire la raffigurazione di It. Pennywise funzionava bene, nella miniserie, al punto da divenire iconico ben più di quanto lo fosse nel romanzo. Il “ragno gigante” del finale, invece, un disastro. Perciò, pure il dittico di Muschietti punta su Pennywise. In modo eccessivo: il pagliaccio finisce per sovrapporsi in modo svilente su It. Poi, anche in questo secondo capitolo, torna il famigerato ragno. Gli effetti lo rendono un po’ più accettabile, ma il problema di fondo rimane. It infatti non è un pagliaccio, tantomeno un ragno. It è un’entità lovercraftiana piombata sulla Terra dallo Spazio profondo, che assume per sembianze quelle delle paure di coloro ai quali si palesa; per sconfiggerlo con il “rito di Chud” occorre portarsi su di un piano metafisico. It perde forza ogni volta che deve “parlare e sentire come se fosse una persona qualsiasi”: problema amplificato dalle esigenze di messa in scena, che trae origine da un limite rintracciabile già nel romanzo, la cui “parte più debole [è] il momento in cui It si personifica”[1]. Il lungo segmento finale di questo secondo capitolo è un esasperante profluvio di trasfigurazioni del mostro e di jump scare che non inquietano, una lunga sequenza che non riesce mai a distinguersi dall’attraversamento della casa degli orrori di un luna park.
Tutto una baracconata, quindi? No. Anche se la parte iniziale fatica a ingranare (l’inutile sequenza d’apertura con Xavier Dolan, la frettolosissima introduzione dei protagonisti adulti), dopo la sequenza ambientata al ristorante cinese le cose buone non mancano. Tre aspetti ci hanno convinto. Primo: “It – capitolo 2” è un film che, malgrado le apparenze, rimane concentrato sui protagonisti da ragazzi, non sugli adulti. Secondo: si concentra piuttosto bene sul punto chiave del libro, l’idea che il legame dell’amicizia nata in età giovanile sia l’unica forza che permette (anche a questi fragilissimi adulti!) di non soccombere al Male. Terzo: sviluppa visivamente un discorso sull’oblio e la memoria tramite il ricorso continuo ai flashback dei protagonisti da ragazzini. Quest’ultimo è il principale elemento di originalità rispetto al romanzo, che al contempo recupera in parte l’andirivieni cronologico fra le due epoche in cui “It” è ambientato, del tutto assente nel primo episodio (ma elemento imprescindibile di questa storia. Non si può restituire il senso di “It” senza far coesistere le sue due dimensioni temporali).
Molti hanno criticato questo secondo capitolo per aver tagliato via in malo modo lo spessore dei protagonisti adulti. A noi invece è parsa una scelta coraggiosa (e non succube della supposta intenzione di rendere tutto una baracconata di jump scare). Un filo conduttore accomuna le due parti del dittico e lo rende originale in modo interessante: tutto il primo film è incentrato sui ragazzi; questo secondo vede sì quegli stessi ragazzi diventati adulti, ma di questi adulti sappiamo pochissimo, mentre ciascuno di essi è approfondito in relazione all’infanzia e ai traumi di quell’età (ad esempio, è ben resa la sottotrama del senso di colpa sviluppato da Bill per la morte di George). Lo sbilanciamento sui ragazzi è veicolato dal ricorso ai flashback e ad altre forme di visualizzazione di se stessi ragazzi. E tutto ciò è al servizio dell’idea centrale di “It”: solo da ragazzini sappiamo “credere” e sappiamo sviluppare legami profondi. Perciò i “perdenti” si salvano: grazie alla fede (nella magia, nell’esistenza del Male, nella possibilità di sconfiggerlo) e grazie alla loro unione. Da adulti sono diventati deboli, inetti, piegati dalla vita: non hanno niente che li renda speciali. È solo il ricostituirsi del loro legame a rimetterli in moto (a parte Stan). Dice, il film, tutto questo? Sì. Lo dice bene? Ci prova. Soprattutto, il secondo capitolo prova a raccontarlo in modo originale, grazie alla graduale emersione delle memorie di ognuno. Al netto di qualche effettaccio di troppo, che ne rende stucchevoli diversi passaggi della parte centrale.
Peccato davvero per l’interminabile finale, che inficia brutalmente quanto c’era di buono. Finale delle cui insidie sceneggiatore e regista dovevano pur essere consapevoli, visto che il personaggio di Bill adulto interpretato da McAvoy (scrittore e sceneggiatore) è accompagnato da un tormentone costante: a nessuno piacciono i finali delle sue storie. Nemmeno a Stephen King, che nel suo cameo nel film rifiuta di farsi autografare un romanzo di Bill, appunto perché… non ne ha gradito il finale.
[1] I virgolettati sono tratti da D.Paolin, It, Una fenomenologia del male, in Dentro al nero. 13 sguardi su It di Stephen King (a cura di L. Cristiano e E. Macioci), Il primo amore, 2017, p. 105
cast:
Jessica Chastain, James McAvoy, Bill Skarsgård, Bill Harder, Isaiah Mustafa, Jay Ryan, James Ransone, Andy Bean, Xavier Dolan
regia:
Andres Muschietti
titolo originale:
It: Chapter Two
distribuzione:
Warner B.
durata:
169'
produzione:
KatzSmith Productions, Lin Pictures, New Line Cinema, Vertigo Entertainment
sceneggiatura:
Gary Dauberman
fotografia:
Checco Varese
scenografie:
Paul D. Austerberry
montaggio:
Jason Ballantine
costumi:
Luis Sequeira
musiche:
Benjamin Wallfisch