Due campi. Uno verde, calpestato da robusti e solidi piedi di gioventù bianca che con i loro completini praticavano tattiche rugbystiche, l'altro fatto di terreno sabbioso e protagonista di indisciplinate ma appassionate partitelle di calcio tra magri ragazzi neri.
I cancelli dividono i rispettivi campi da gioco e una strada. Sull'asfalto passa l'auto che trasporta il neo-scarcerato Nelson Mandela. Le barriere tra bianchi e neri sembrano invalicabili e netta è l'impressione che al di là del quieto vivere sia pressochè impossibile andare.
Nelson Mandela ri-nasce in un paese sull'orlo di una guerra civile. "Gettate le armi", furono le prime parole che Mandela rivolse ai membri del movimento ANC (partito anti-apartheid). Una liberazione (1990) che sfociò nella vittoria per la nuova carica di presidente del Sudafrica. Mandela fu il primo capo di stato di colore e si guadagnò in breve tempo grande rispetto mondiale per il suo sostegno alla riconciliazione nazionale ed internazionale.
Impersonare Nelson Mandela sul grande schermo era da sempre il sogno di Morgan Freeman che, resosi conto delle difficoltà di comprimere in due ore l'autobiografia di Mandela, "Lungo cammino verso la libertà", si assicura i diritti del romanzo storico di John Carlin "Playing the Enemy: Nelson Mandela and the Game that Made a Nation", poi adattato da Anthony Peckham. Si privilegia, dunque, un'angolazione alternativa, un piccolo grande frammentodi vita, un episodio strategicamente politico pur mascherato da partecipazione d' evasione al confronto di doveri presidenziali.
La nazionale di rugby Sudafricana, simbolo dell'orgoglio afrikaner, odiata e boicottata dai neri, viene riammessa nelle competizioni internazionali dopo un' assenza di circa un decennio e proprio in occasione dei mondiali casalinghi. Mantenere il soprannome della squadra, gli Springbok, i colori verdeoro e gareggiare per un'unica bandiera, un popolo finalmente unito. Questo fu il progetto di Nelson Mandela. In "Invictus" il campionato del mondo di rugby è praticamente tutto filtrato attraverso lo sguardo di Madiba e, checchè se ne dica, questo è innanzitutto il film di Morgan Freeman. Indicato dallo stesso Mandela come unico attore che poteva impersonarlo, Freeman ha dichiarato che, data l'impossibilità di replicarne il carisma ha provato - riuscendoci - a trovarne una sintesi. L'attore ha chiesto al suo amico Clint di realizzare il film, che ha accettato senza pensarci su due volte.
La famiglia tormentata dell'uomo eastwoodiano stavolta resta sullo sfondo ("la mia unica famiglia è il Sudafrica" dice Freeman/ Mandela) e le contraddizioni altrove sviscerate dei suoi protagonisti sono, a conti fatti, qui assenti. Eastwood è a suo agio nell'incontro tra Nelson Mandela e il capitano della nazionale di rugby Francois Pienaar: è nei confronti tra i due che è possibile intravedere uno dei letimov per eccellenza dell'ultimo cinema eastwoodiano, ovvero l'incontro tra il vecchio e il nuovo, il padre e il figlio, sebbene in questo caso sia sfruttato per un approdo ottimista, un'arma per un trionfo globale piuttosto che una parabola prevalentemente umana. Il vecchio trasmette al nuovo valori da attuare per scuotere coscienze collettive. E' cosi' che rinasce una nazione. Nell'uso degli spazi casalighi, negli sguardi e nei pacati movimenti, nella discreta musica che accompagna le immagini Clint Eastwood si muove a memoria. Ha meno dimestichezza (o meglio: non appartiene al suo Dna da cineasta) con la Grande Storia di una nazione come quella sudafricana. Il sordo rumore dei respiri, la steadycam che fluttua tra gli atleti, le riprese dal basso che scolpiscono i volti dei giocatori. Nella finale del Campionato del mondo di Rugby tra Sud Africa e Nuova Zelanda (24 giugno 1995, Johannnesburg, Sudafrica) Clint ci mette anima e lotta, ma difetta in sudore e passione. "Invictus" è un ottimo film sportivo o, a scelta, un discreto e più che digntoso film nell'itinerario registico di Clint Eastwood.
27/02/2010