Il secondo film di Philippe Van Leeuw vede la luce dopo una lunga gestazione. Era il 2009 quando il regista belga, che già vantava una notevole esperienza come direttore della fotografia, esordì con "Le Jour Où Dieu Est Parti En Voyage", storia di una giovane donna tutsi perseguitata durante il genocidio ruandese. Con "Insyriated" arriva la consacrazione: vince la sezione "Panorama" al 67° Festival di Berlino, il premio Lumière come miglior film francofono e fa l’en plein (sei premi su sei nomination) all’ottava edizione dei Magritte du Cinema. Un successo clamoroso, che oltre alla visione merita un approfondimento.
"Insyriated" racconta nell’arco di una giornata, da un’alba alla seguente, le vicende di una famiglia (allargata) che vive barricata in un appartamento di Damasco, mentre all’esterno infuria il conflitto. Girato quasi esclusivamente in interno, prevalentemente con camera a mano, il film impone allo spettatore il coinvolgimento in uno spazio angusto, opprimente, inevitabilmente affollato. Lontano dagli stilemi di genere, "Insyriated" predilige movimenti di camera rapidi, dinamici, al frenetico inseguimento dei personaggi che si spostano da una stanza all’altra. Una scelta estetica netta, che amplia e accentua la percezione claustrofobica. All’interno di tale quadro stilistico, in cui l’occhio è costantemente frustrato nel suo desiderio di vedere "oltre", l’orecchio guadagna un ruolo di primaria importanza nel riconoscere e valutare gli stimoli che provengono dall’esterno. Fra gli elementi più peculiari del film risiede infatti l’eloquente uso espressivo dei rumori (reminiscenze di Jacques Tati?): l’azione comincia spesso fuori campo, per mezzo di uno o più segnali uditivi (gli spari; le bombe; i colpi alla porta; il vetro rotto; il pianto del bambino; le urla…) ed è non di rado suggerita piuttosto che mostrata. Il risultato è la creazione di un fuori campo incombente e vivo, ubiquo, minaccioso, pronto a irrompere nel profilmico con la rapidità esiziale di uno schianto.
Tuttavia, "Insyriated" non si limita a giocare sulla facile opposizione interno/esterno, bensì presenta in seno alla "famiglia" uno stringente dilemma morale. Quando Samir, marito di Halima (Diamand Bou Abboud), viene abbattuto da un cecchino nel parcheggio, la matriarca Oum Yazan (Hiam Abbass) glielo tace per salvaguardare la fragile quiete della casa. La tensione latente fra la generosità di Halima, pronta a sacrificarsi per i compagni, e il cinismo di Oum Yazan, disposta a tutto pur di proteggere la propria famiglia, matura in un chiasmo emotivo di pulsioni opposte e contrapposte. Sarebbe riduttivo, oltre che semplicistico, parlare di coscienza e di rimorso, di umanità e disumanità; parliamo allora di tipi di umanità diversi, afflitti e logorati dalla pressione sfibrante della guerra, che agisce con l’inesorabile forza di un torchio sulle vite delle persone comuni. Ecco quindi che la regia di Van Leeuw, misurata e vivace, traboccante di mezze figure e primi piani, lascia che siano i volti e i gesti degli attori a raccontare una famiglia siriana in tempo di guerra, tormentata da tragici eventi e gravosi dilemmi nella comune linearità del quotidiano. Volti che soltanto davanti a uno specchio (in due occasioni) perdono la loro fissità di maschere e ritrovano una dimensione espressiva autentica, che sia rabbia, dolore o semplice anelito alla sincerità. Nel cast, composto in buona parte da autentici rifugiati, spiccano l’attrice libanese Diamand Bou Abboud e, su tutti, l’attrice palestinese Hiam Abbass, con una prova giudicata da alcuni critici la migliore dell’intera carriera (Romney, ScreenDaily).
La forza centripeta della narrazione, che addensa tensioni e conflitti nell’angusto microcosmo delimitato dalle pareti dell’appartamento, si allenta nel finale. Riconosciamo allora, nei pochi, occasionali slanci verso l’esterno – il recupero di Samir, la telefonata a Monzer, lo sguardo intenso di Mohsen Abbas sul quale si chiude il film – i lineamenti della speranza, che come un celebre mito suggerisce è l’ultima dea cui rivolgersi quando non si hanno altre risorse. È dunque dalla speranza in un futuro radioso, migliore, o semplicemente "ordinario", che i personaggi traggono la forza e la capacità di adattamento necessarie per affrontare un presente turbato dall'eccezionalità della guerra. Intenzionalmente estraneo alle polemiche partigiane e scevro da colorazioni politiche, "Insyriated" esplora insomma l’elemento fondante di ogni società civile – la famiglia – allo scopo di indagare il rapporto fra guerra e quotidianità in una prospettiva equilibrata ed empatica, rivolta, come ha dichiarato il regista, "au coeur de l’humain".
cast:
Hiam Abbass, Diamand Bou Abboud, Juliette Navis, Mohsen Abbas
regia:
Philippe Van Leeuw
distribuzione:
Movies Inspired
durata:
85'
produzione:
Altitude 100 Production, Liaison Cinématographique
sceneggiatura:
Philippe Van Leeuw
fotografia:
Virginie Surdej
scenografie:
Issa Kandil
montaggio:
Gladys Joujou
costumi:
Claire Dubien
musiche:
Jean-Luc Fafchamps