Alex Fayard è un professore della Sorbona che scrive thriller di successo, alla maniera del misterioso autore nipponico Shundei Oe, a cui ha dedicato la sua tesi. Invitato in Giappone per promuovere il suo nuovo libro, Alex s'imbatterà nell'irresistibile "geiko" (le geishe di Kyoto) Tamao, minacciata da un ex amante. E se l'uomo che la perseguita fosse proprio Shundei Oe?
Dopo le borsette di Prada e Gucci, adesso si comincia a taroccare anche il cinema. Se ne incarica Barbet Schroeder, regista che, a dire il vero, non ha mai azzeccato un film che sia uno (a parte, forse, "Maitresse") e che si è dedicato negli ultimi anni a documentari su personaggi poco edificanti come Idi Amin Dada e Jacques Verges, appagato dall'andar controcorrente come i salmoni. Quello che si tarocca non è solo l'estetica del cinema nipponico, omaggiato nei primi cinque minuti (che sono anche gli unici godibili) in cui Schroeder si diletta a rifare un film giapponese alla Teruo Ishii, ma anche le sue tematiche peculiari, affrontate con la malagrazia del turista sprovveduto. In una Kyoto banalissima quanto inesistente, popolata di seducenti geishe, tra kimono, cerimonie del tè, giardini zen e yakuza dalle scontate tendenze sadomaso, Schroeder costruisce il suo esile e farraginoso giocattolo, con compiaciuta spocchia fuori luogo. Il suo sguardo gronda esotismo d'accatto, neanche fossimo ancora nell'Ottocento ai bei tempi dei "Voyage en Orient", e il suo posticcio trastullo metanarrativo sull'inestricabile intreccio tra arte e vita, tema che ha quasi sempre condotto ad esiti letali e già obsoleto ai tempi dei fratelli Lumiére (si fa per dire) frana rovinosamente, tanto più che l'incauto regista tenta di contrabbandarlo per fulminante illuminazione autoriale. "Inju" sembra, non solo nel tema ma anche nella forma e nella colonna sonora, un film degli anni 60, e forse lo è davvero. Erano infatti anni che al cinema non si apprezzavano battute del calibro di: "Segua quella macchina".
L'ironia, se proprio vogliamo vedercela ed ammesso che non si tratti di comico involontario, non basta però a salvare quella che è un'operazioncina supponente ed autoreferenziale, si spera destinata ad un rapido oblio. L'arroganza di usare come pretesto il romanzo "La belva nell'ombra" (1928) di Rampo Edogawa, padre del mistery giapponese, la dice lunga sulla malriposta presunzione di Schroeder, dato che già il bellissimo "Rampo" (1994) di Rintaro Mayuzumi e Kazuyoshi Okuyama, faceva uso dei medesimi stratagemmi adottati dallo sciagurato regista, ma con esiti infinitamente superiori, così come altrettanto riusciti erano il film collettivo "Rampo Noir" del 2005 o il "Gemini" di Tsukamoto.
Benoit Magimel nella parte di Alex offre una delle peggiori interpretazioni della sua carriera, oscillando tra lo stupore catatonico ed un'intensa espressione da cane bastonato, mentre Lika Minamoto funziona abbastanza bene, e gli appassionati di cinema asiatico avranno il piacere di ritrovare Ryo Ishibashi nel consueto ruolo del boss della yakuza, scelta che peraltro non depone a favore della fantasia di Schroeder anche nel reparto casting. Unica nota positiva, per chi si accontenta, l'inutilmente bella fotografia di Luciano Tovoli.
Chiudiamo questa recensione con un accorato appello a Marco Muller: con tutti i bei film asiatici che hanno circolato quest'anno, era proprio necessario mettere in concorso quest'oggetto di modernariato? Malgrado Benjamin, "l'aura" dell'originale è infatti difficilmente riproducibile.
cast:
Benoit Magimel, Lika Minamoto, Ryo Ishibashi, Gen Shimaoka, Shun Sugata
regia:
Barbet Schroeder
titolo originale:
Inju, la Bête Dans l’Ombre
distribuzione:
UGC International
durata:
105'
produzione:
SBS Films
sceneggiatura:
Eitan Arrusi, Jean-Armand Bougrelle
fotografia:
Luciano Tovoli
scenografie:
Fumio Ogawa
montaggio:
Luc Barnier
costumi:
Fumio Ogawa
musiche:
Jorge Arriagada