And I try
Oh my God, do I try
I try all the time
In this institution
Habi vive con la madre e i parenti nell'edificio popolare numero 5 della periferia di una città francese qualunque. Lavora (come stagista) presso il Comune e fa la volontaria presso una associazione che si occupa di problemi di alloggio e, inevitabilmente dato il quartiere, di problemi di integrazione. La grottesca morte del sindaco in carica porta al potere un sostituto così gretto che la situazione precipita velocemente e Habi sarà costretta a farsi carico di scelte sempre più difficili. Il suo migliore amico Blaz, il vicesindaco, la madre, tutti cercano di spiegarle che è tutto inutile, ma Habi non si ferma.
Il titolo originale è proprio "Edificio numero 5" e quindi ci potrebbe essere la tentazione di catalogare il film nel genere "il protagonista non sono i personaggi ma un luogo". E in effetti è l'edificio che porta ad alcune delle scene memorabili di questo bel film – il funerale che si incastra nelle scale, lo sfratto. Ma in realtà quelle scene sono belle perché sono scene collettive, perché il palazzo è una rete di relazioni. D'altro canto, ancora le relazioni sono date dalla prossimità degli appartamenti, persino dalla struttura del palazzo – in un certo senso il palazzo aiuta la resistenza degli inquilini perché gli sbirri non sono abituati a fare le scale e stanno sempre col fiato corto – ed è per questo che gli inquilini si ribellano allo sfratto. Non si tratta (solo) della perdita di una casa e di comodità, ma del dismembramento di una comunità che in una società francamente invivibile può essere il punto di appoggio. Le stesse due scene sono testimonianza della cura registica di Ladj Ly - nella scena del funerale si ha la netta sensazione che neanche la telecamera riesca a trovare posto, mentre la sequenza dello sfratto al contrario ha il ritmo e il respiro delle scene epiche di Hollywood.
Il film è politico (e meno male) ma Ladj Ly sa bene che un film è un film e non un editoriale o un documentario. Habi non è un personaggio teorico, vive le tensioni – tra i bisogni della comunità e quelli dei suoi familiari, tra il lavorare in un sistema e odiarlo, tra la voglia di dar fuoco a tutto (letteralmente) e la voglia di costruire con mente lucida alternative. Non è cieca allo sfacelo, ma vive l'ottimismo della pratica, è insomma una di quelle persone preziose che vi auguro abbiate incontrato almeno una volta nella vita.
Il sindaco è interessante perché come profilo è il professionista bianco benestante che si occupa della cosa comune, insomma è simile allo spettatore medio delle sale di cinema d'essai. E allo stesso tempo rappresenta bene lo sfacciato e crudele scivolamento a destra dei moderati europei – marito padre cristiano, spietato con i deboli e ottuso nel non capire la complessità del reale che non combacia col quaderno a quadretti delle elementari che è la sua visione del mondo.
Il vicesindaco è un bel personaggio, nel senso che è un personaggio odioso ma è tridimensionale e vivo, e almeno ha presente che anche una piccola società non può essere risolta con slogan idioti come la tolleranza zero.
Anche Blaz, che oscilla dal "meglio farsi gli affari propri" al letterale mettersi in mezzo quando ce n'è bisogno alla fine sarà la scintilla per uno dei punti centrali del film – l'oscena sorpresa dei borghesi quando la loro violenza sistemica causa una reazione.
Infine, ha un ruolo piccolo ma centrale la famiglia di rifiugiati siriani, gli immigrati cristiani buoni usati dalla propaganda, che si trovano scomodi spettatori di uno scontro a cui non sanno o non vogliono prendere parte.
"C'è una società che precipita dal centesimo piano e a ogni piano ripete… " – "L'odio" è per i film di banlieue quello che "Il signore degli anelli" è per il fantasy – ti ci devi confrontare per forza, e già avevamo fatto questo gioco per il bellissimo "I Miserabili", opera prima di finzione per Ladj Ly. Questo "Gli indesiderabili" volendo fa un passo da questa dimensione esistenziale/spettacolare verso la dimensione analitica con cui Ken Loach nei suoi film disseziona i problemi. Ma Ladj Ly è cinematograficamente superiore, riuscendo a coniugare le fitte conversazioni "alla Kechiche" con scene di più ampio respiro, e riuscendo a coniugare la vis polemica e il cuore con scene di tensione e persino d'azione in un modo che semplicemente non riesce a nessun altro. Non solo, anche la gabbia del naturalismo ormai sta stretta al regista, che ad esempio mette in scena la rabbia di Blaz con toni allucinati che rispecchiano un rifiuto disperato di accettare questa realtà come l'unica.
La scommessa di fare un film complesso e politico e allo stesso tempo appassionante e popolare è pienamente riuscita. Recuperatelo.
cast:
Anta Diaw, Alexis Manenti
regia:
Ladj Ly
titolo originale:
Batiment 5
distribuzione:
Lucky Red
durata:
101'
produzione:
SRAB films
sceneggiatura:
Giordano Gederlini, Ladj Ly, Dominique Bomard
fotografia:
Julien Poupard
scenografie:
Karim Lagati
montaggio:
Flora Volpelière
costumi:
Noémie Veissier
musiche:
Pink Noise