Una donna immersa nell'abitudine dei propri gesti. Il lavoro, le mansioni domestiche, gli spostamenti comandati e quelli scelti per incontrare quello che resta di un'umanità ridotta all'osso: il padre, incattivito dalla vita e recluso in un esilio volontario, la sorella, madre precaria di un figlio problematico, ed un amante presente quel tanto che basta per ricordarsi la mancanza di un affetto vero, sincero. Sullo sfondo l'anonimato di una città senza speranza. Un ingranaggio tarato per funzionare all'infinito ma interrotto da una improvvisa dipartita. Da quel momento nulla sarà come prima; la guarigione deve passare per un grande dolore.
Marina Spada non cambia scenario: ancora una volta al centro del suo cinema c'è la solitudine e il tentativo di uscirne. Ed è nuovamente una donna, la dottoressa Marina Barbieri incaricata di curare i corsi di formazione per gli impiegati dell'azienda per cui lavora, il terminale su cui far confluire una poetica esistenziale imbastita su una serie di immagini/simbolo capaci di racchiudere l'essenza delle cose. I campi lunghi sulle camminate solitarie della protagonista come sintesi di un progressivo distacco da se stessa e dagli altri, e poi la scena finale su un paesaggio finalmente assolato - la luce opaca nella prima parte, luminosa nelle ultime sequenze risponde allo stesso principio - con l'obiettivo che si apre gradatamente su un insieme al quale la donna sembra finalmente appartenere, e nel quale si riconcilia con la propria esistenza; la panoramica su un cantiere che assomiglia a Ground Zero, con i palazzi ancora in nuce ma avviati a sostituire ciò che c'era prima, come proiezione di un nuovo domani in via di costruzione. Il vuoto che diventa opportunità di cambiamento. Predisposizione ad accogliere il nuovo dopo aver fatto tabula rasa di quello che c'era prima. Dalla rarefazione dialettica Marina Spada trova la forza del suo cinema; uno sguardo essenziale, diretto, invisibile. Non succede altrettanto quando le parole prendono il sopravvento. Quando bisogna scegliere tra una fede cieca che non porta felicità - quella del padre vissuto nel rancore nei confronti di una moglie che l'aveva abbandonato - ed il determinismo di un'esistenza senza Dio, incentrata su rapporti di causa-effetto inesorabili, manifesto di una filosofia, quella della protagonista, codificata nei
briefing che Marina tiene al suo auditorio, e destinata ad entrare in crisi nel progressivo svolgersi della vicenda. E' qui che il film si irrigidisce, nel tentativo di spiegare l'evidente, di formulare teorie, di diventare insomma un oggetto praticabile. Un'opzione condivisibile ma in questo caso poco riuscita. Interpretato da una brava Claudia Gerini, intenzionata a riproporsi nel cinema d'autore (prossimamente anche nel nuovo film di
Matteo Garrone) e per l'occasione disposta a sacrificare la sua naturale fisicità, "Il mio domani" , presente nel concorso ufficiale del festival internazionale del film di Roma, deve molto delle sue atmosfere alla musica di Paolo Fresu, jazzista sempre più spesso prestato al cinema.
Il titolo del film si riferisce ad un verso di Antonia Pozzi, poetessa suicidatasi in giovane età ed alla quale la stessa Spada aveva dedicato "Poesia che mi guardi", docufiction realizzato nel 2009.
09/11/2011