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recensione di Lorenzo Taddei
6.5/10

Marley Corbett (Kate Hudson) è una giovane pubblicitaria in carriera che si gode la vita, le cene con gli amici e i dopocena con gli “amici di letto”, senza impegnarsi in legami sentimentali. Julian Goldstein (Gael Garcia Bernal) è un medico di successo, totalmente assorbito dal lavoro. Sarà lui a diagnosticare a Marley un cancro al colon e a seguirla nelle successive terapie. Com’è prevedibile fin dal suo primo ingresso in scena, Julian realizzerà anche il terzo desiderio (il primo è volare, il secondo un milione di dollari) di Marley, l’unico che non riesce ad ammettere: l’amore. Fallito ogni tentativo di cura, convenzionale e sperimentale, Marley attingerà proprio dall’amore per trovare la forza di accettare la morte e vivere al meglio il tempo che le rimane.

Rispetto al suo lungometraggio d’esordio (“The Woodsman – Il segreto”, in concorso al Toronto International Film Festival del 2004 e presentato al 57° Festival di Cannes nella sezione “Quinzaine des Rèalisateurs”) Nicole Kassell, regista americana classe 1972, sembra abbandonare ogni velleità di filmmaker indipendente, in favore di un’opera dichiaratamente commerciale. Dopo aver trattato in “The Woodsman” un argomento gravoso come quello della pedofilia e del reintegro di un pedofilo nella società, la Kassell sceglie un tema altrettanto impegnativo quale il cancro e l’accettazione della morte, affrontandolo però in modo molto più leggero, volto a commuovere e divertire.

“Il mio angolo di paradiso” è una commedia drammatica, come la vita, in cui l’amore – verso se stessi e verso gli altri – assurge a condizione sine qua non è impossibile accettare la morte. La storia si svolge a New Orleans: scenografie pastello, molto ordinate si combinano a una fotografia luminosa, a una colonna sonora soft pop. I personaggi, per quanto artisti ed eccentrici, restano puliti e accomodati. Tutto sembra sistemato per esser scombinato dalla presenza sullo sfondo, viva e costante, della morte.  L’equilibrio del film si regge proprio sulla sintesi degli opposti: l’ineluttabilità della morte e la sua vitale accettazione, l’amore e l’odio, il bianco e il nero, figurativamente rappresentati nell’immagine di un dio di colore (Whoopi Goldberg) immerso(a) completamente nel bianco.

Biunivoca – e opposta – può essere l’interpretazione stessa del film. Per un verso, i timori preventivi suscitati dal trailer, si dimostrano fondati. Alcune battute frivole o certe moine, soprattutto del bel messicano Gael Garcia Bernal (il giovane Che Guevara ne “I diari della motocicletta”, al suo primo ruolo tenero e romantico) melenso fino ai limiti della sopportazione (vedi la sua balbettante incapacità di portare a termine una barzelletta), inducono a considerare il film come la solita storia strappalacrime, condita di banale umorismo e di risvolti prevedibili, funzionali ad alleviare la pena del pubblico e a condurlo verso il più rassicurante mondo della fiaba. Marley è la solita “sgranocchia-uomini” pronta a tirar fuori l’intuizione geniale da promozione istantanea (“Le donne non comprano mai preservativi” – “Finché continuerete a rivolgervi solo a clienti uomini non sarete mai numeri uno… Sono le donne che decidono se, quando e quante volte farlo”). L’incontro con Dio – che svela alla protagonista il suo destino e le concede tre desideri – è a dir poco sospetto. Dio è Whoopi Goldberg. O almeno, questa è la personale visione di Marley (“Tu sei Dio?” – “Questo è il modo in cui vuoi vedermi tu”). Il dubbio di rimpasto con “Ghost” è legittimo, sebbene in Ghost la vecchia Whoopi (che non pare invecchiata di un giorno) sia soltanto mediatrice dell’aldilà e non somma direttrice. Per fortuna i timori di scivolare nella banalità più bieca (sulla falsariga di Morgan Freeman in “Una settimana da Dio”), sono scongiurati da un dosaggio limitato di nuvole e vestiti immacolati, tanto da apparire piuttosto come una beffa della regista.

Così passiamo alla seconda possibile interpretazione del film. Sorvolando sugli sviluppi più scontati della trama, su alcune smancerie insistite o su certi clichè riempitivi della più popolare commedia sentimentale – e commerciale (vedi dottorino fascinoso, o i tre desideri) – resta una buona parte del film che vale la pena considerare e che inaspettatamente conferisce all’opera tutta una sua identità. Non appena realizza la sua mortalità – condizione dannatamente comune, ma molto spesso dimenticata – Marley reagisce con rabbia, contro il dottore, contro l’apprensione di sua madre (Kathy Bates), contro suo padre (Treat Williams) che non c’è mai stato prima. Le cure non funzionano, l’esuberanza che aveva opposto al disincanto scema. L’idea di una famiglia, sempre respinta, diviene un traguardo a lei irraggiungibile e contribuisce ad alimentare il suo senso di solitudine. Ma in fondo alla rabbia e all’odio (Marley che guida la bicicletta, indosso soltanto il pigiama, con in mano una bottiglia di whisky, imprecando contro un auto che la tallona e poi schiantandosi dinanzi a una chiesa) incontra di nuovo Dio (Whoopi), il suo sé, e decide definitivamente di accettare la morte. Riconosce la propria impotenza, rinuncia all’odio e trasforma la rabbia in energia positiva.

Nel tempo che le rimane perdona gli altri, decidendo di perdonare anzitutto se stessa. Perdona la madre, confessandole che soltanto una volta ce l’ha avuta veramente con lei (“Ti ricordi da piccola, non facevo altro che masturbarmi? […] Tu mi hai messo in punizione due settimane e mi hai detto di non toccarmi la gioia preziosissima…”) e chiedendole poi di aiutarla ad organizzare il suo funerale, come una grande festa, non come un funerale. Perdona gli amici, perdona persino suo padre. Si dichiara finalmente a Julian (“Tu sei il mio terzo desiderio…e ti amo”), supera le sue paure, simbolicamente volando col deltaplano.

Se è vero che fa sempre piacere Kathy Bates (Beverly Corbett) sul grande schermo, anche in ruoli secondari, è anche vero che l’interpretazione di Kate Hudson mi è parsa brillante e più vicina ad “Almost Famous” che alle sue ultime apparizioni. Notevole la gag (vale la pena citarla, perché può passare in sordina) fra Marley e Vinnie (Peter Dinklage), il nano “escort speciale”, nonché “Il mio angolo di paradiso”, com’è chiamato nel giro. “Sono la donna cancro” si lamenta Marley, dubitando che qualcuno possa ancora desiderarla.  Vinnie: “Tutte le storie d’amore finiscono in tragedia: Romeo e Giulietta, Jfk e Jackie, Minnie e Topolino…” Marley:“Ma Topolino non è morto!” Vinnie: “Già, sulla carta no…” 

In definitiva, volendo sintetizzare le due interpretazioni proposte, “Il mio angolo di paradiso” ha il pregio e il difetto di essere un film senza grandi pretese. Anziché il rischio di spettacolarizzare il dolore – mi viene in mente “Mare Dentro” di Amenabar – corre piuttosto il rischio di spettacolarizzare la leggiadria. Di mostrare il coraggio dell’essere umano di fronte alla sentenza più terribile – la privazione della speranza – per poi rifugiarsi nei confini della fiaba. Da cui comunque restano fuori le parole di Marley (voce narrante) sul finire, prima che cominci la festa del suo funerale: “E così, questa è la mia storia… Avevo paura di fidarmi e di perdonare, di non essere abbastanza. E invece lo ero.”


24/11/2011

Cast e credits

cast:
Kate Hudson, Gael García Bernal, Whoopi Goldberg, Lucy Punch, Kathy Bates, Rosemarie DeWitt, Romany Malco, Peter Dinklage, Treat Williams


regia:
Nicole Kassell


titolo originale:
A Little Bit Of Heaven


distribuzione:
The Film Department


durata:
106'


produzione:
Davis Entertainment, The Film Department


sceneggiatura:
Gren Wells


fotografia:
Russell Carpenter


scenografie:
Stuart Wurtzel


montaggio:
Stephen A. Rotter


costumi:
Ann Roth


musiche:
Heitor Pereira