Dopo "Nonhosonno" era lecito aspettarsi che Dario Argento proseguisse sulla strada del giallo, genere al quale il suo nome è inevitabilmente legato, ma il cineasta romano torna sulle scene con un thriller teso e serrato, nonostante l'ambientazione per lo più angusta degli uffici della polizia e le partite di videopoker che hanno per protagonista lo schermo di un pc, praticamente privo di sangue e omicidi, se si escludono le uccisioni riservate ai personaggi interpretati da Silvio Muccino e Liam Cunningham (soprattutto quella di quest'ultimo, unica concessione realmente cruenta), dove l'interesse nello scoprire chi è l'assassino è irrilevante e dove per la prima volta (all'interno della filmografia argentiana, ovviamente) il mondo della polizia è il centro dell'attenzione della storia.
In questo film ciò che veramente conta è l'asettica e livida atmosfera che ci restituisce la scena dell'obitorio, nella quale viene esaminato il cadavere della prima vittima. Ed è soltanto con freddi cadaveri - giusto per ratificare il concetto - che lo spettatore avrà a che fare: gli omicidi sono già avvenuti, oppure restano fuori campo, pur racchiusi nello stretto riquadro di una video-chat. Il nuovo mondo della comunicazione (internet e telefonia mobile e sms) contribuisce a rafforzare la generale sensazione di solitudine sociale e - soprattutto - di intrusione nella sfera della privacy dell'individuo (la relazione Anna-Carlo-John), contrappuntata da una buona dose d'ironia che si espleta per via dei bizzarri personaggi del dottore danzante e cantante e dello "sgargiante" Alvaro, gestore di una sala giochi.
Argento seguita in questo lavoro di rarefazione e "privazione" anche grazie al sostegno della fotografia naturalistica di Benoit Debie, la quale sfrutta pochi accorgimenti artificiali, senza - tuttavia - ricorrere alle illuminazioni cinematografiche, assecondando così l'oscurità - a tratti grottesca - di un'inedita Roma fatta di vicoli e strette stradine medievali (emblematica la sequenza di stampo onirico in cui Remo rincorre l'ammaliante ragazza che appare e scompare nel nulla) e il bagliore statico delle luci delle stanze d'ufficio in cui i poliziotti svolgono il proprio lavoro di routine. Ma bisogna sottolineare anche il montaggio di Walter Fasano che in alcune scene offre dei rapidi ed efficaci stacchi ellittici che esaltano il concetto di "privazione" succitato.
La sequenza che esemplifica al meglio quanto suesposto è ancora una volta - e proprio come per la sequenza iniziale del treno nel precedente "Nonhosonno" - un saggio di pura suspense che pone lo spettatore nel ruolo di un topolino in gabbia. Questo lungo segmento in cui Stefania Rocca viene aggredita in casa, architettato e strutturato in modo geometricamente perfetto, con attimi di attesa calibrati al centesimo di secondo, movimenti che appaiono sinuosi e combinati - quasi rendendo l'idea di una danza tra Anna e il suo aggressore - e stacchi sonori minimali che assecondano, impreziosendo, puntuali, il tutto, ottiene una resa incredibile, sfruttando pochi basilari elementi, senza l'apporto di effetti speciali, oppure - peggio ancora - di subdole improvvise enfatizzazioni sonore/rumoristiche.
La sceneggiatura, firmata - al solito - Argento-Ferrini, scade in un finale parossistico con uno scambio di battute tra Claudio Santamaria e Stefania Rocca che rasenta il ridicolo. La vicenda che ruota attorno alle sfide tra abili giocatori di video-poker fa storcere il naso. Silvio Muccino appare, infatti, dotato di poteri paranormali; e qui si potrebbe riscontrare dell'ironia autoreferenziale (la Jennifer di "Phenomena"). Ma ciò che interessa agli autori è esclusivamente l'aspetto metaforico della vita appesa al filo della casualità che deriva dalle partite al gioco in questione. Prendere o lasciare: se non si accetta il gioco meglio rivolgersi altrove.
26/09/2011