C’è la versione dell’assassino. C’è la versione della madre del morto. C’è una leggenda di paese, la versione di suor Dolores, del sagrestano. Ci sono poi le pressioni politiche e le esigenze del ministero. Infine c’è Fulvio Momenté, funzionario di giustizia preposto a risolvere il caso del giovane Carlo Mongiorgi, che nel borgo lagunare di Lio Piccolo ha ucciso con un colpo di fionda il coetaneo Emilio, figlio della nobildonna Clara Vestri Musy, credendolo il Diavolo.
Sono i tempi e i luoghi preferiti dal regista bolognese, che nella laguna emiliano-veneta del primo Dopoguerra ritrova i colori e le suggestioni dell’infanzia. Al lettore smaliziato non sfugge l’aggancio genealogico alle atmosfere paludate e opprimenti del cult avatiano per antonomasia, quel “La casa dalle finestre che ridono” che ha conquistato – del tutto legittimamente malgrado il debito con la poetica di Argento – un posto d’onore fra i grandi titoli dell’horror italiano. Anche qui uno straniero si imbatte in maniera fortuita sulle tracce di un mistero antico, anche qui si scontra con la grettezza omertosa di una sperduta comunità rurale. Tuttavia, in questo caso non sbirciamo l’orrore attraverso lo sguardo di Capolicchio (chi la ricorda, quella soggettiva malefica?), bensì osserviamo le tracce accumularsi intorno al protagonista, fino a quando ne risulta completamente circondato. La proliferazione di resoconti incompatibili e non verificabili disinnesca la meccanica raziocinante, la mente insegue le impressioni: un palpito nell'ombra, un riflesso sull’acqua.
La ricercata ambiguità prospettica è forse l’unico elemento vagamente innovativo in un contesto che ricalca altrimenti, senza troppa convinzione, gli stilemi visivi e sonori del giallo anni 70: trucco cereo, interni scabri, esterni bui, efflorescenze di sangue, pianti spettrali. Ma a deludere sono soprattutto le scelte di regia, forse condizionate dal fatto che in origine il soggetto era stato pensato per il piccolo schermo. Modesto l’utilizzo del fuoricampo, mentre dominano le inquadrature fisse, i piani ravvicinati, il campo-controcampo lineare e i ralenti di dubbio gusto, insomma le modalità intuitive e didascaliche tipiche del linguaggio televisivo. Analoga trasandatezza si estende alla fase di montaggio, fortemente ellittica e caratterizzata da bruschi e frequenti cambi di scena (un altro elemento tipico delle fiction).
L’intreccio avanza frettoloso e con poco equilibrio, troncando le implicite sotto-trame e trascurando i personaggi e le potenzialità delle loro interazioni (si veda Liù Quinterno/Ariel Serra). Non brilla Lo Giudice nella parte principale.
Con il ritorno di Avati al filone del gotico padano assistiamo insomma alla riesumazione di una stagione cinematografica ormai estinta, carica di forme e maniere che un tempo atterrivano e che oggi suscitano appena un velo di nostalgica e ammirata tenerezza.
cast:
Chiara Caselli, Lorenzo Salvatori, Andrea Roncato, Ariel Serra, Gianni Cavina, Massimo Bonetti, Cesare Cremonini, Ludovica Pedetta, Gabriel Lo Giudice, Alessandro Haber, Lino Capolicchio, Filippo Franchini
regia:
Pupi Avati
distribuzione:
01 Distribution
durata:
86'
produzione:
Antonio Avati, Pupi Avati
sceneggiatura:
Antonio Avati, Pupi Avati, Tommaso Avati
fotografia:
Cesare Bastelli
montaggio:
Ivan Zuccon
costumi:
Maria Fassari
musiche:
Amedeo Tommasi