Da anni ormai, su queste pagine, la nostra webzine segue con grande attenzione l'evoluzione sorprendente del cinema sudamericano di questo inizio di terzo millennio. Cile, Brasile, Perù, Colombia, solo per citare i casi più eclatanti. Ma anche Messico, se si vuole allargare l'osservazione all'America latina del Centro. Sono tutti Paesi che continuano a sviluppare una cinematografia che si muove costantemente su due binari paralleli: da una parte l'elaborazione delle origini degli Stati nazionali così come li conosciamo, con le loro democrazie imperfette e il loro passato insanguinato; e dall'altra l'osservazione di una società contemporanea piena di contraddizioni e di improvvisi e sorprendenti cambi di passo, spesso alle prese con una modernità difficile da governare, che lascia uomini e donne spaesati e senza punti di riferimento.
Il discorso vale anche per l'Argentina, ovviamente, ma con una differenza sostanziale. Qui i registi di questi ultimi anni hanno lavorato molto sul secondo profilo che abbiamo citato e molto meno sul primo, accantonando quel lavoro di somma e compenetrazione fra Storia e storie che, altrove nel continente sudamericano, è riuscito così bene. Gastón Duprat, Juan José Campanella, Damián Szifrón, fino alla futura presidente di giuria a Venezia Lucrecia Martel, tutti loro hanno dei conti irrisolti con il Novecento del loro Paese. Sta invece cercando di percorrere una sua strada personale Pablo Trapero, ormai quasi cinquantenne, giunto con "Il segreto di una famiglia" alla sua nona regia di un lungometraggio. A differenza dei suoi connazionali, Trapero fin dagli esordi ha girato opere che non potevano prescindere dall'esperienza della dittatura militare, dall'assenza di democrazia e libertà, dal silenzio e dall'omertà che ha spaccato in due la popolazione, fra collaborazionisti e vittime. Il suo cammino dietro la macchina da presa, anzi, ha seguito una traiettoria inversa rispetto ai colleghi menzionati poco sopra. Partito da opere giovanili rabbiose e caratterizzate da una forte connotazione scenica di rigetto delle regole mainstream, con una decisa volontà di affrontare e narrare determinati eventi senza dover scendere a compromessi con i canoni dell'industria cinematografica internazionale, nel tempo della maturità Trapero si scopre quasi riconciliato con alcune sue ossessioni e mette in scena un melodramma familiare con il passo fermo e calmo di un autore che non deve dimostrare più nulla. "La Quietud" (titolo originale che riprende la proprietà di campagna dove la famiglia protagonista si dà appuntamento) vuole essere un film sulle relazioni e sulle ambiguità di fondo che caratterizzano, in una società borghese e cattolica, il nucleo stesso dell'istituzione famiglia. A seguito di un infarto che ha colpito il padre, due sorelle, Mia ed Eugenia, si ritrovano dopo quindici anni e scoprono di avere più cose in comune di quanto avessero pensato. Nel grande e stupendo casolare di campagna nella provincia di Buenos Aires, le due sorelle possono finalmente ritrovarsi e confrontarsi, mentre la loro famiglia deve fare i conti con le ferite della dittatura militare.
Il titolo italiano allude in modo elementare al cuore della storia scritta dallo stesso Trapero a quattro mani con Alberto Rojas Apel: partendo da un incidente che fa da causa scatenante (il malore del vecchio), madre e figlie si ritrovano al capezzale dell'uomo e cominciano a scoprire i motivi mai detti che hanno tenuto la famiglia separata nel corso degli anni. Due i legami che Trapero sviscera. Quello fondamentale è tra le due sorelle, interpretate con grande adesione emotiva da Martina Gusmán e Bérénice Bejo. Su di loro Trapero concentra l'attenzione delle sue inquadrature migliori, velando di una sensualità decisamente eccessiva e di un'ambiguità irrisolta il senso del loro rapportarsi. Certo, è apprezzabile il lavoro fatto sul trucco e sulle riprese in campi e controcampi, che evidenziano in modo sconcertante la somiglianza fisica delle due donne, ma la problematizzazione dei loro dissidi passati non riesce a scavare sotto pelle. Funziona paradossalmente meglio l'altro fronte del film, quello che, in realtà, dovrebbe restare sullo sfondo del thriller sentimentale: nel ritorno a Buenos Aires delle due figlie, entrambe entrano di nuovo in contatto con la loro madre, vera padrona di casa (interpretata da Graciela Borges). È lei a conservare i veri segreti, quelli che intrecciano la storia della Quietud con il passato dell'Argentina. Qui Trapero ritrova il meglio di se stesso: nei tesi confronti dialettici tra Esmeralda e le due figlie, il cineasta rispolvera la sua mai sopita attenzione per un'urgenza espressiva impellente, quella di gettare un cono di luce sugli anfratti bui della storia nazionale. Quando fa definire ad Esmeralda "governo militare" ciò che era una dittatura vera e propria, con Mia che corregge polemicamente sua madre, quando incolla la sua macchina da presa sugli occhi furenti di Eugenia che, nonostante sia alle prese con complicazioni del suo matrimonio e della sua vita parigina, comincia a realizzare le tragiche ambiguità cui la sua famiglia si è prestata negli anni del regime; ecco, quando i personaggi del suo dramma alzano il capo e osservano con più contezza ciò che li circonda, lì il cinema di Trapero ha un battito d'ali inaspettato. Ma il suo melodramma virtuoso, dominato da carrellate ed effetti in controluce, insegue un classicismo che finisce per obbedire a una forma che anestetizza ciò che viene messo in scena. Lo preferivamo autore di un cinema meno levigato, meno istituzionale, ma abile nel dosare tragedia e ironia per raccontare di un'Argentina che molti suoi connazionali ancora conoscono molto poco.
cast:
Martina Gusmán, Bérénice Bejo, Graciela Borges, Joaquín Furriel, Edgar Ramirez
regia:
Pablo Trapero
titolo originale:
La quietud
distribuzione:
BiM Distribuzione
durata:
117'
sceneggiatura:
Pablo Trapero, Alberto Rojas Apel
montaggio:
Alejandro Brodersohn, Pablo Trapero