Un sequel con l’anima del remake. Fedele all’originale di oltre mezzo secolo prima, “Il ritorno di Mary Poppins” è anzitutto un omaggio (e in questo senso è diretto anzitutto agli adulti) oltre che un’ovvia operazione commerciale (concepita in anni in cui la Disney va rafforzando il proprio impero con produzioni sempre più diversificate). Ma anche una consapevole operazione di restaurazione, anzitutto stilistica. Si pensi, più di tutto, alle sequenze animate, in stile bidimensionale classico, totalmente calate – come tutto il film – nel mood formale in cui aveva preso vita il classico del 1964. E se tutto il film risulta quasi un calco dell’originale, con qualche momento di stanca (la danza dei lampionai, che rifà pari pari quella degli spazzacamini) e qualcun altro del tutto stucchevole (la casa capovolta della povera Meryl Streep), “Il ritorno di Mary Poppins” riserva qualche idea sorprendente in sede di sceneggiatura. Ci riferiamo soprattutto al tema del Tempo, e a quello della frattura da riparare.
Quella che all’inizio sembra solo una bizzarria (l’orologio del Big Bang che andrebbe avanti di qualche minuto, secondo l’ammiraglio Boom), finisce per rivelarsi portatrice del senso profondo del film: c’è qualcosa di sfasato nel mondo, da rimettere in sincrono, esattamente come l’attitudine alla vita del cresciuto Michael, che ha abdicato alle sue velleità artistiche e dimenticato in soffitta l’aquilone di quand’era bambino. Si tratta in fondo sempre di “Saving Mr. Banks”. Nel finale, riportare indietro le lancette del Big Bang diviene un espediente narrativo determinante che si svela anche come chiara metafora.
La frattura da riparare è quella del vaso dipinto sbreccato dai bambini (il cui valore era “inestimabile” per la madre solamente in senso affettivo). Ma evidentemente allude a una frattura ben più ampia, che riguarda anzitutto la perdita della madre (cui quel vaso apparteneva) e la frattura interiore che il lutto ha determinato su Michael, e indirettamente su tutta la famiglia. Nella fantasia animata che segue la caduta del vaso, la frattura si trasforma in una lunga crepa da evitare come la faglia di un terremoto: e analogamente si deve evitare di cadere oltre il bordo del vaso, dentro al cui disegno i bambini sono entrati grazie alla magia di Mary Poppins.
Ma l’intuizione migliore rimane quella del lupo cattivo, in cui viene proiettato dai bambini il banchiere interpretato da Colin Firth: il sogno contiene anche le brutture della realtà, che i bambini sono in grado di cogliere e comprendere, metabolizzandole attraverso la fantasia. Quando poi, nella realtà, scorgono nell’ombra del banchiere lo stesso gesto del lupo – lo stesso modo di oscillare la catenella dell’orologio – i bambini comprendono l’aggancio tra incubo e realtà (è lui che sta minacciando la stabilità familiare e vuole impossessarsi della casa), nello stesso momento in cui si riconferma centrale – con l’ombra di quell’orologio da tasca – il tema del Tempo (l’orologio del banchiere rimanda all’impaziente attesa della mezzanotte alla quale scatterà il pignoramento).
Lo spirito dell’infanzia non è affatto unicamente evasione e fuga dalla realtà, al contrario custodisce la chiave per comprenderla meglio: e infatti i bambini comprendono la realtà delle cose prima e più precisamente dei grandi. Del resto, il ritorno di Mary Poppins si lega al volo dell’aquilone, che papà Micheal vorrebbe buttare e che – simbolo del salvifico spirito infantile – riprende vita da solo. L’aquilone sarà poi riparato dal figlio di Michael proprio con i frammenti del certificato azionario, vanamente cercato dal padre, che rappresenta la salvezza per la famiglia.
Se da tutto questo si potrebbe pensare che il film meriti una valutazione ampiamente positiva, non si deve dimenticare quanto detto in apertura: il film rimane un’operazione-nostalgia, il cui valore ma anche il cui grande limite è costituito dal voler essere – e non poter essere nulla più – di un’operazione vintage, di riproposizione di un immaginario classico senza alcuna ambizione ad aggiornarlo. Ciò permette al film di muoversi su terreni sicuri, laddove probabilmente un’attualizzazione di Mary Poppins avrebbe dato vita solo a incongruenze e sarebbe potuta risultare davvero fallimentare. Tuttavia questo calco dell’originale, sia pur condotto con mestiere e con le buone intuizioni di cui si è dato conto, è anche lo specchio di un immaginario (disneyano e forse anche, più ampiamente, statunitense) che riesce ormai con fatica ad innovarsi veramente e ringiovanire. Un bel paradosso per un film che celebra la freschezza dell’infanzia.
cast:
Emily Blunt, Lin-Manuel Miranda, Ben Whishaw, Emily Mortimer, Meryl Streep, Colin Firth
regia:
Rob Marshall
titolo originale:
Mary Poppins Returns
distribuzione:
Walt Disney Studios
durata:
130'
produzione:
Lucamar Productions, Marc Platt Productions, Walt Disney Pictures
sceneggiatura:
David Magee
fotografia:
Dion Beebe
scenografie:
John Myhre
montaggio:
Wyatt Smith
costumi:
Sandy Powell
musiche:
Marc Shaiman, Scott Wittman