“Il richiamo della foresta è la più grande storia di cani mai scritta”
C. Sandburg
Poco più di un quarto di secolo separa il film da poco uscito nelle sale da quello realizzato da Michael Toshiyuki Uno per la televisione, mentre antecedente a entrambi è quello del 1972 di Ken Annakin. Rispetto a quest’ultima versione e ancor di più a quella di Toshiyuki Uno, Chris Sanders ha realizzato un film teso a recuperare, fatte salve le immancabili distanze e gli adattamenti, la duplice chiave di lettura della celebre vicenda narrata da Jack London: da un lato rivelare l’inconsueta capacità dell’autore di calarsi nella psicologia dell’animale, dall’altro considerare quest’ultimo come una metafora antropica, secondo la quale le avventure di Buck altro non sono se non le medesime del giovane Jack London, sfruttato e risputato dalla società unicamente per la sua forza fisica.
A corollario della scelta operata, l’intreccio viene depurato di tutti gli elementi accessori che avrebbero intralciato il vero intento del regista: dimostrare che l’uomo si abbrutisce e diventa oltremodo violento quando viene riportato a una condizione elementare, subumana. In altri termini, Buck e John sono molto più che amici: costituiscono due facce della medesima medaglia, simbiotico emblema perennemente in equilibrio instabile, in un ambiente ostile, tra avventura e leggi evolutive. Quasi alla conclusione del film, ad esempio, e dunque in un’ottica rivelatoria, le parole del narratore sulla parabola esistenziale di Buck contengono in realtà una riflessione su quella umana: “Buck era stato viziato, ma anche maltrattato dagli uomini. Ora aveva ritrovato se stesso, in mezzo ai suoi simili. Quanta strada aveva fatto! E quanta ne avevo fatto io per allontanarmene!”.
Solo apparentemente distaccandosi dal romanzo, infatti, Sanders fa di John Thornton un uomo solo e addolorato per l’improvvisa morte del figlio e la conseguente separazione dalla moglie, fino al punto da ridurlo in balia dell’alcool. Ora, tale risvolto del personaggio estraneo al Jack di London ci restituisce una riflessione universale sulle conseguenze negative della solitudine tanto sul cane, che è un po’ come l’uomo giacchè in gruppo affronta meglio le sfide della sopravvivenza, quanto sull’uomo, che, per quanto umano, nella deprivazione sociale regredisce a una condizione bestiale. Le parole di John Thornton riecheggiano infatti quelle di London: “Lo vedete come è facile trasformare una creatura apparentemente educata in una belva?”.
John Thornton, se paragonato agli omonimi delle due precedenti versioni, appare coerente e ben sfaccettato per una serie di ragioni. La già succitata linearità della trama; alcune sue debolezze che lo spingono nel collaudato alveo del good bad guy; la sua credibilità iconica: l’età e la barba a essa corrispondente gli garantiscono l’aura di un Abramo, di un Solone che quando parla, in realtà sentenzia. John ha inoltre per certi aspetti un ruolo ancora più solido e plausibile di quello rivestito nel romanzo giacché Sanders ne ha fatto il narratore con la voce fuori campo, inizialmente (in apparenza) onnisciente e, da un certo momento in poi, interno alla vicenda. Tale scelta, indubbiamente curiosa quando non straniante rispetto al dettato del soggetto originale, crea una certa attesa nello spettatore che si chiede quando e come Harrison Ford, sotto la cui voce narrante si era aperto il film, farà conoscenza con Buck. Si tratta di un'attesa sapientemente alimentata dal regista, tanto che, quando il primo incontro tra i due avviene, da subito il cane appare come l’alter ego empatico di John. I John Thornton delle versioni precedenti appaiono decisamente meno riusciti: Charlton Heston (1972) farà di Buck il proprio cane da slitta, sostituendosi nel ruolo a Perrault, mentre Rick Schroeder (1993) appare più come un giovane romantico alla ricerca di avventure (anche sentimentali).
Rispetto a John, Buck è un personaggio dinamico. Nel corso del film, a mano a mano che il rapporto tra i due va cementandosi, il cane, per la prima volta in un ambiente integralmente naturale, va incontro a un processo di regressione, ovvero di inesorabile perdita della mansuetudine e di tutti i tratti connessi all’addomesticamento, a vantaggio della riacquisizione dei tratti più ferini del cane e, in ultima istanza, del lupo. La contesa con Spitz, il maschio dominante della muta da slitta, è il terreno privilegiato su cui si misura tale processo. Di pari passo, Buck sente tuttavia anche pulsare in lui l’istinto a unirsi ai branchi di lupi che ogni tanto fanno sentire il loro richiamo. Nel film del ’93, l’ululato degli antichi progenitori ricorre per la prima volta quando mancano meno di 30’ alla conclusione. Sanders ha invece voluto che esso comparisse ben prima e fosse soprattutto centellinato con un sapiente crescendo. Sotto questo aspetto la fedeltà al soggetto si somma alla compiutezza dell’intreccio. Non inficiano invece la coerenza di Buck col soggetto originale né alcune divergenze, come il salvataggio dalle rapide di un lupo (in luogo di John), né il sostegno della muta a Buck contro Spitz (laddove nel romanzo il confronto è un puro duello), né lo scontro con un orso (anziché contro un alce). Essendo concepito per un pubblico prevalentemente costituito da famiglie, l’impatto emotivo del film riesce a nascondere anche alcune lievi imperfezioni nell’uso della computer grafica, soprattutto in esterni.
Contribuiscono ottimamente alla riuscita del film inquadrature e fotografia. Per il montaggio, particolarmente riuscita, ad esempio, è una delle sequenze finali: mentre Buck, inquadrato di spalle, guarda malinconico la capanna, senza stacchi, un lupo dalla bianca livrea entra in campo dietro di lui; è il segno della fine del rapporto del cane col mondo degli uomini e dell’ingresso in quello degli animali. Per la fotografia, tra le tante, molto azzeccata è la sequenza successiva all’arrivo della slitta del servizio postale a Dawson: l’interno notte rischiarato dalle calde luci delle lanterne ricrea una pregevole atmosfera di intimo raccoglimento per gli avidi lettori.
cast:
Cara Gee, Omar Sy, Harrison Ford
regia:
Chris Sanders
titolo originale:
The Call Of The Wild
distribuzione:
Walt Disney Studios Motion Pictures
durata:
100'
produzione:
3 Arts Entertainment, 20th Century Studios
sceneggiatura:
Michael Green
fotografia:
Janusz Kaminsky
scenografie:
Stefan Dechant
montaggio:
David Heinz, William Hoy
costumi:
Kate Hawley
musiche:
John Powell