Racconta del male "Il Presidente" di Santiago Mitre, delle sue incarnazioni apparenti e reali, delle sue personificazioni politiche e delle sue declinazioni intime. Lo fa attraverso le atmosfere rarefatte di un'ambientazione montana e l'impianto claustrofobico di un thriller diviso tra intrighi e drammi privati, con i toni di una solidità narrativa cementificata dalla serietà degli argomenti trattati e i guizzi espressivi di una tragedia da camera sintetizzata con eleganza in poche stanze. Lo fa girando intorno a un grande centro narrativo - un importante summit governativa per il controllo del petrolio nel Sud America -, addentrandosi in un importante centro tematico - l'identità, il carattere del misterioso neo presidente dell'Argentina interpretato da Riccardo Darìn - e inscrivendo i due emisferi nel raggio di una doppia crisi: pubblica, per le misure dei rapporti di forza nell'uso dell'oro nero, e privata, per il tracollo emotivo della figlia del presidente.
In entrambi i casi il focus è la figura misteriosa di questo ambiguo politico: padre invisibile di una nazione e genitore assente per una donna instabile, carattere a tratti spettrale nei comportamenti e a tratti molto accogliente nei modi, al centro del mirino di una storia costruita intorno al suo opaco, imprendibile profilo. Mitre infatti si prefigge di lottare contro l'impossibilità di avvicinare davvero il mistero della politica, delineando in risposta un affresco interiore esteso, profondo e anche orchestrato con obbiettivi precisi, per cercare di afferrare e contenere in poche immagini la complessità psicologica del pensiero di un uomo di governo nel suo momento più importante, più fragile e più realistico: l'incarnazione degli ideali nella contingenza del pensiero. Il regista sceglie modalità espressive affascinanti che, pur scivolando a volte in scorciatoie incoerenti - come nella linea narrativa quasi soprannaturale legata ai traumi della figlia -, nel complesso soddisfano al meglio le ambizioni contenutistiche, grazie a stratificazioni che culminano in un finale degno di nota.
"Il Presidente" è un film che infatti esiste e si esalta soprattutto nei suoi cinque secondi finali: è l'ultima inquadratura di un movimento muscolare, la fotografia in extremis di uno spostamento d'aria provocato da una decisione fondamentale per le sorti di un paese, per l'etica e per la morale di un uomo. Il restante minutaggio che lo costituisce è, in prospettiva, lo spazio per costruire una perifrasi in funzione di presupposto, la lenta architettura motivazionale di una scelta altrimenti incomprensibile, oscura e lontana. Allestimento dilatato e finalizzazione colta al volo sono quindi i movimenti rappresentativi di un lungo macchinare narrativo, ombroso, ora affascinante ora superficiale, finalizzato all'esplosione istantanea di un efficace colpo a bruciapelo contro lo spettatore, alla vittoria di un chiodo piantato dopo molte, stratificate martellate. Martellate aggiustate in progressione per raggiungere la vetta di tensione e poi slanciarsi ancora oltre, senza scivolare all'ingiù ma invece staccandosi dall'arrivo, permettendo di riflettere sulla contemporaneità e sui suoi mali anche al di là della fine della narrazione.
04/11/2018