A dieci anni esatti da "Il tempo che ci rimane", dedicato alla storia dello stato di Israele, Elia Suleiman, fra i cineasti palestinesi più conosciuti a livello internazionale, torna con un lungometraggio presentato in concorso al Festival di Cannes, dove ha ricevuto una menzione speciale da parte della giuria che evidentemente non deve essere rimasta indifferente di fronte al suo modo così unico di raccontare la realtà. Il cinema di Suleiman si distingue per uno sguardo lieve e surreale sulla situazione israeliano-palestinese e "Il paradiso probabilmente" non fa eccezione, pur prevedendo una variante importante rispetto ai lavori precedenti. Infatti per la prima volta Suleiman supera (sebbene in parte) i confini nazionali, visto che il film è diviso idealmente in tre parti ambientate rispettivamente a Nazareth, Parigi e New York, in tre momenti diversi e non privi di valenze simboliche (il Natale ortodosso, la festa del 14 luglio e Halloween).
Al centro della scena c’è come sempre il regista-attore, sorta di Buster Keaton mediorientale (ma nel suo dna sono rintracciabili altri geni della comicità occidentale, da Chaplin a Jacques Tati, da qui anche la sua fortuna critica in Europa) osservatore laconico, disincantato, malinconico e anche abbastanza perplesso di fronte ai fatti che gli si presentano. Invecchiato rispetto a come appare nei suoi lavori precedenti, adesso Suleiman può però giocare, da par suo, con la sua immagine di regista conosciuto internazionalmente e qui lo vediamo in trasferta in Occidente nella speranza di trovare finanziamenti per il suo nuovo film. Ovviamente chi conosce i suoi precedenti lavori (fra i quali "Intervento divino", che ottenne il premio della giuria a Cannes nel 2002 e fu il primo titolo a rappresentare la Palestina nella corsa all’Oscar per il miglior film straniero, anche se poi non venne nominato), sa che non bisogna aspettarsi né una storia plot oriented, né un metafilm canonico. Nei suoi 97 minuti di durata, "Il paradiso probabilmente", ottimamente fotografato da Sofian El Fani (collaboratore di Kechiche e Sissoko), ci mostra Suleiman che assiste alle situazioni più curiose e bislacche, con la sua originale maniera poetica di vedere il mondo. Si comincia con un sacerdote che reagisce in maniera molto particolare a due persone che si rivelano poco collaborative durante la funzione natalizia e si continua con vicini che si prendono fin troppe libertà con la proprietà altrui, o parenti che passano dall’essere iperprotettivi a rancorosi fra di loro. E’ una Palestina quindi ben poco idealizzata quella che Suleiman decide di lasciare (oltre tutto un luogo dove ormai non ci sono più legami, come testimoniano le visite al cimitero e alcuni effetti personali della madre ormai inutilizzati), a prescindere dalle continue tensioni, rappresentate simbolicamente dalla sequenza in cui due soldati israeliani affiancano la macchina del regista ignorandolo perché impegnati a scortare non si sa dove una ragazza bendata (una semplice prigioniera o un’allegoria della Dea fortuna?), e più che alla strada pensano a rimirarsi nello specchietto e a scambiarsi gli occhiali da sole. Non è che all’estero le cose vadano meglio, visto che Parigi è una città tutta presa dalle celebrazioni nazionali e dal suo ruolo di capitale mondiale della moda, ma dove in effetti non mancano contraddizioni: chi non ha un tetto per dormire è assistito dai servizi sociali, pur se con distaccata cortesia, i migranti si devono accontentare dei lavori più umili (pazienza se i netturbini poi possono giocare a golf con la spazzatura), le forze dell’ordine sono sempre all’erta con coreografica eleganza anche quando il pericolo pubblico è un venditore di fiori abusivo mentre gli energumeni spacconi poco rassicuranti girano indisturbati e l’unico amico a disposizione sembra essere un passerotto. A New York la situazione non cambia molto, poiché gli americani, per quanto accoglienti e alla mano, sono ossessionati dalle armi o da vari rituali (anche qui sottolineati col ricorso alle coreografie) e i poliziotti danno la caccia, tra René Clair e Benny Hill, persino ad un angelo (che indossa però un top con la bandiera della Palestina). A questo si aggiunga il fatto che i produttori cinematografici non sembrano particolarmente interessati a investire su un progetto definito "poco palestinese", come Suleiman si sente dire da Vincent Maraval della Wild Bunch, qui in veste di attore un po’ imbarazzato (forse non soltanto per il ruolo ingrato che gli spetta); la guest star Gael Garcia Bernal invece sembra conoscere il valore del regista, anche se da un punto di vista pratico può fare ben poco per aiutarlo.
Nella sua comicità di situazione schiaffoni, inseguimenti e porte in faccia sono chiaramente depotenziati, perché su certe cose c’è poco da ridere. Suleiman poi si permette di infischiarsene del politicamente corretto imperante e quindi inizia la parte parigina con una lunga sequenza in cui la macchina da presa induce su belle ragazze che passeggiano come in una sfilata di moda e in seguito si ironizza sia sullo spaesamento degli asiatici quando sono fuori dal proprio paese sia su un’ignoranza diffusa per quanto riguarda il Medio Oriente. La lezione però più importante che il regista ci lascia è quella che il mondo, ovunque lo guardi è pieno di contraddizioni e di cose che non funzionano. Tant’è che alla fine Suleiman finisce per tornare in Palestina (che in fondo non aveva mai lasciato del tutto), anche se il dolore resta. La sequenza finale ambientata in una discoteca è emblematica, col protagonista che guarda un gruppo di ragazzi divertirsi spensierati nonostante la situazione drammatica del paese. Entusiasmo giovanile o esagerata inconsapevolezza? Quale che sia la risposta, quella sembra l’unica maniera possibile per continuare a sorridere.
cast:
Elia Suleiman, Gael García Bernal, Gregoire Colin, Ali Suliman, François Girard, Guy Sprung, Kwasi Songui, Stephen McHattie
regia:
Elia Suleiman
titolo originale:
It Must Be Heaven
distribuzione:
Academy Two
durata:
97'
produzione:
Rectangle Productions
sceneggiatura:
Elia Suleiman
fotografia:
Sofian El Fani
scenografie:
Juna Suleiman
montaggio:
Véronique Lange
costumi:
Alexia Crisp-Jones