Jean-Pierre (Francois Cluzet) è un medico generico che esercita nella Francia rurale, tra strade sterrate e piccole fattorie a macchia di leopardo.
La sua vita è completamente assorbita dall’ambulatorio e le visite a domicilio; la professione è l’unica cosa che gli sia rimasta, in special modo da quando sua moglie, da cui ha divorziato, e il suo figlio ventenne hanno preso la strada della città, Parigi.
In una routine che sembra destinata al
ad-libitum sopraggiunge un imprevisto doloroso: il medico è malato, la scansione di una risonanza magnetica gli ha scovato una massa tumorale; il suo quotidiano, più di sportivo che di scienziato, dovrà se non fermarsi del tutto almeno smorzarsi con l’aiuto di Nathalie (Marianne Denicourt), una bella signora di mezza età, fresca laureata. La naturale diffidenza campagnola e le profondissime regole d’ingaggio con la popolazione indigena rendono il tirocinio più duro del previsto. Come è tradizione delle commedie, però, le cose sono destinate ad aggiustarsi.
Nuova incursione dello sceneggiatore Thomas Lilti nella professione medica, che è anche la sua, dopo il buon successo di "Hippocrate" (2014).
Adiuvato da Cluzet, attore a suo agio nei registri più disparati, anche in quello molto complicato dei “tempi della commedia”, trottiamo piacevolmente con lui e poi anche con Nathalie tra la gente semplice eppure tutt’altro che facile della Francia più profonda. Girato per buona parte in esterni, non riusciamo a rilassare lo sguardo sulle inquadrature bucoliche che la storia sembrava promettere. La terra diventa spesso fango, il fango sangue e ossa rotte, la pioggia temporale, il buio oscurità. Il rapporto dell’uomo col suo ambiente è dinamico e apprensivo e ogni personaggio in marcia deve essere pronto a qualsiasi avvenimento, anche il più imprevisto. È ben per questo che Jean-Pierre è scettico sull’adattamento di Nathalie in una realtà indomita e poco propensa al compromesso.
Il linguaggio della campagna tende a somigliare alla ricognizione nucleare della risonanza e al protocollo ottuso della radioterapia: essi si sviluppano nell’unica sintassi a loro nota e non potrebbero essere altrimenti. La storia, comunque, approfitta del suo svolgimento per mostrare gli stati di realtà del nostro tempo.
Fin troppo evidente è la riflessione sul Servizio Sanitario Nazionale, sempre più focalizzato sui grandi centri polivalenti in cui sciogliere un millennio buono di scienziati-stregoni, taumaturghi della parola, guaritori non solo del male ma soprattutto del male di esistere, che è la vera malattia. Cluzet, dopo il grande successo commerciale di "
Quasi amici" conferma il suo talento a impersonare personaggi fragili, minati da un handicap o da una malattia che lo tengono ben lontano dalle gesta atletiche di "Non dirlo a nessuno" (G. Canet, 2006), tanto per citarne uno.
Una storia gradevole, insomma, di buoni sentimenti ma non necessariamente banale, e una piccola gioia per gli occhi.
23/12/2016