Piccolo, grande film di Philippe Garrel, in costante coerenza con tutto il suo pregresso, continuamente alla ricerca di nuovi spunti di osservazione della vita relazionale, del modo di stare al mondo, della semplicità che si nasconde dietro la difficoltà del vivere la quotidianità. Il tutto viene ripresentato, di film in film, con un aggiornamento perenne, mai domo, mai staccato dall'evoluzione della contemporaneità. Quella Francia di provincia a volte, urbana altre volte, che fa da quadro generale alle vicissitudini dei suoi protagonisti non è mai la stessa: le sue mutazioni sociali, nel costume e nelle consuetudini, sono perfettamente messe in scena attorno ai personaggi, fra loro, dietro di loro, attorno a loro. È un piccolo prodigio che si ripete ogni volta, quello cui assistiamo: un umanesimo minimalista che pure non trattiene alcun tipo di emozione, ma anzi la lascia fluire nelle parole e nei gesti, alla ricerca di un estenuante tentativo di rappresentare il reale, così come tutti lo viviamo. Il cinema autoriale di Garrel, in questo modo, diventa universale, ognuno trova il suo piccolo mondo rappresentato, ciascuno può avere il suo momento di immedesimazione; certo, accettandone le regole, i canoni, i tic di un autore che, in ogni caso, non ammette compromessi né di scrittura né di regia.
L'afflato emozionale di Garrel può declinarsi in due modi: o storie più ambiziose, che vogliono storicizzare e mitizzare la messa in scena del sentimento, dell'impulso istintivo, della passione più o meno espressa; oppure storie più piccole, che assomigliano a dei minuscoli quadri a sfondo familiare, bozzetti di situazioni combinate insieme con un incredibile talento per la veridicità degli eventi e per la loro rappresentazione anti-spettacolare e pure così dirompente da un punto di vista emotivo. "Il grande carro" appartiene senza dubbio a questo secondo filone: in 95 minuti Garrel riunisce sul set i suoi tre figli e confonde la propria autobiografia con l'universo-mondo delle contraddizioni familiari, affianca ai suoi tre ragazzi storie che potrebbero esserne un ritratto reale e al tempo stesso crea, in fase di scrittura insieme ai suoi sodali sceneggiatori, un incastro di vicende umane che tiene in sé una congerie di possibilità, di situazioni, di avventure possibili che faciliteranno, appunto, quella relazione fra spettatore e opera artistica di cui si diceva poco sopra.
Una famiglia gestisce da anni una piccola compagnia di burattini: la madre è morta, il padre ha cresciuto i tre ragazzi con grande amore, ma anche con la determinazione di chi vuole che l'arte di famiglia vada avanti per generazioni, a dispetto del mondo che cambia. Quando egli muore, però, esplodono le legittime aspirazioni dei tre e la compagnia rischia di finire. Louis vorrebbe diventare un attore in carne e ossa, sfidando la resistenza a salirci lui, su un palcoscenico, anziché restare nascosto dietro delle marionette; Lena vuole portare lo spettacolo a immergersi nel nuovo millennio, accantonando i classici e cominciando lei stessa a scrivere dei copioni per nuove tournée; infine Martha, figura molto combattuta, alle prese con svariati sensi di colpa che la ancorano al passato, timorosa di tradire la volontà paterna e restia ad accettare l'inevitabile, ovvero che la tradizione dei burattini debba cambiare per non morire.
Non sappiamo quanto papà Philippe abbia rivisto dei suoi figli in questi tre personaggi che ha incollato sulle loro spalle, ma è un dato di fatto che i tre caratteri, sommati, permettano già di riannodare i fili del ragionamento su un cinema garreliano che vuole farsi ancora una volta affresco di ciò che muove e motiva le azioni. Da Louis che non sente di vivere la sua vita, ma quella che qualcun altro gli ha assegnato, a Martha che, nonostante sul finale avrà un momento di presa di coscienza opposta, sconta una sorta di sudditanza psicologica nei confronti dell'ingombrante figura paterna, il cineasta parigino riesce a tratteggiare degli aspetti caratteriali che sono profondamente presenti nelle generazioni contemporanee. E qui, nuovamente, vale la pena sottolineare un'abilità eccezionale di Garrel in quel saper cogliere degli aspetti sempre nuovi, sempre aggiornati con il passare dei decenni. Gli under 40, da sempre il suo orizzonte preferito nell'osservazione del reale, sono cambiati continuamente. Lui stesso che si metteva in scena insieme all'amata Nico in un capolavoro come "La Cicatrice intérieure" (1971) ha poco in comune con il Gerard dolente di "Non sento più la chitarra" (1991), che a sua volta presenta molte divergenze dal Louis de "Il grande carro". Questa capacità di adattamento è fondamentale nell'opera di Garrel, perché ne permette la possibilità di mimetizzarsi in ogni epoca, mantenendo salde, però, le peculiarità stilistiche e di scrittura. Se i più giovani restano il centro focale del suo lavoro sull'essere umano, c'è in questa considerazione l'evidente dimostrazione di come ci troviamo di fronte a un cineasta che, a dispetto della sua ormai avanzata età, è in grado di perseguire l'obiettivo di un'arte cinematografica vitale, che pulsa entusiasmo e voglia di vivere, che trasuda da ogni fotogramma i dilemmi, piccoli o grandi che siano, di una fase della vita che è il motore del sentimento, della creatività, dell'ingegno. I personaggi più anziani, mirabilmente delineati in quest'ultima opera, attraverso il lavoro fatto sulla figura del Padre e della Nonna (due generazioni diverse), protagonisti volutamente senza nomi propri, risultano sagome che entrano in contrapposizione con i loro eredi, un confronto che non è conflitto, ma messa in scena della diversità, del parlarsi nella stessa lingua eppure non comprendersi appieno, del vivere sotto lo stesso tetto, eppure sentire di appartenere a due esistenze differenti. Riuscire a restituire tutto ciò, una raffigurazione del pianeta-famiglia così stratificata eppure apparentemente semplicissima, è una delle qualità più luminose de "Il grande carro", che in questo, pur avendo tutte le caratteristiche tecniche per apparire un episodio minore della filmografia del proprio autore, entra di diritto in una linea narrativa coerente che dalla metà degli anni 60 ha ormai quasi sfiorato i sessant'anni.
Il Garrel regista di scena ribadisce in più momenti del suo film le convinzioni che porta avanti da sempre: la macchina da presa si muove il meno possibile e, specie quando riprende più personaggi contemporaneamente e in un ambiente chiuso (lo spazio narrativo prediletto dal regista), sceglie un punto fermo nella stanza e costringe attori e attrici a un perfetto coordinamento di movimenti nell'entrare e uscire dall'obiettivo, limitando gli spostamenti a impercettibili movimenti. Un parallelismo fuori dall'Europa potrebbe farsi con il rigore di Hou Hsiao-hsien, che è una sorta di alter ego asiatico di Garrel. Hanno vari punti di contatto le loro carriere e diversi episodi sovrapponibili le loro consuetudini di messa in scena. La differenza fra Garrel e altri cineasti come Hou sta nel talento di dare un ritmo anche alla fissità dell'inquadratura, con un uso più elaborato della parola, certo, ma soprattutto con uno studio dettagliatissimo dei rapporti interpersonali sulla scena. In tutto questo vale sottolineare che a Garrel il rigore estetico non interessa di per sé, non ne fa una questione di ossessione tecnica, alla ricerca di un'impronta personale da imprimere necessariamente a ogni opera. L'apparente rigidità degli schemi è un mezzo, più che altro, asservito al suo obiettivo primario, ovvero la volontà di non alterare la resa di ciò che è realistico, di ciò che è plausibile. "Il grande carro", trattando anch'esso come svariati altri titoli della filmografia dell'autore transalpino tematiche ruotano attorno all'imprevedibilità degli equilibri sentimentali, si fonda sul pilastro del realismo. Le rotture sentimentali, il dolore per il lutto, l'innamoramento, la delusione professionale, l'angoscia per la precarietà economico, tutto ciò è restituito con il consueto stile sommesso tipico di Garrel. Qui interviene, una volta ancora se possibile, l'arte come linguaggio universale, una sorta di terra di mezzo in cui tutti i personaggi si ritrovano. L'amore per i burattini, per il teatro, per la pittura, per la scrittura (tutte discipline presenti con pari dignità) è ciò che lega inevitabilmente i protagonisti della storia, a prescindere da ciò che li allontana. Un innesto di puro romanticismo, questo, da parte di Garrel, un omaggio al proprio mestiere, ma anche alle tradizioni della sua stessa famiglia: dove falliscono le relazioni, dove non hanno successo gli interessi che diventano sempre più distanti, lì solo l'arte rimane come baluardo per tenere insieme e viva una piccola comunità.
cast:
Louis Garrel, Damien Mongin, Esther Garrel, Lena Garrel, Aurelien Recoing
regia:
Philippe Garrel
titolo originale:
Le Grand Chariot
distribuzione:
Altre Storie, Minerva Pictures
durata:
95'
produzione:
Rectangle Productions, Close Up Films, Arte France Cinéma, RTS Tournon Films
sceneggiatura:
Philippe Garrel, Arlette Langmann, Jean-Claude Carrière
fotografia:
Renato Berta
scenografie:
Manu de Chauvigny
montaggio:
Yann Dedet
costumi:
Justine Pearce
musiche:
Jean-Louis Aubert