“Il corriere – The Mule” possiede nelle premesse (tratte da eventi realmente accaduti) le caratteristiche editoriali di una storia dura e tragica, imperniata sul senso del dramma e incentrata su un risultato sociale avvilente. Non sembra esserci nulla di spensierato, infatti, nel racconto della vita di Earl Stone, ottantenne floricultore rovinato dalla crisi del commercio online, esiliato dalla famiglia a causa del suo comportamento egoista e infine deciso a diventare un corriere della droga per il cartello messicano. La sua è una vicenda frustata da un pessimismo sociale esaltato da problemi che comprendono la rivoluzione digitale e l’inadeguatezza gerontocratica, la chiusura di un’epoca fatta di ritrovi per reduci e lo sbocciare delle piante per il narcotraffico. Quale altra impostazione narrativa migliore del dramma per una storia che si estende lungo il perimetro americano come una strada senza via di uscita? La risposta di Clint Eastwood a questa domanda sorprende in contropiede con la forza di un contraccolpo tonale da maestro indiscusso.
Il tono de “Il corriere – The mule” è infatti quello della leggerezza ironica, dell’azione semiseria e non della tragedia di cronaca riportata con accento sopra le righe. Non c’è quasi mai vero dramma nella riduzione cinematografica della storia di Leo Sharp (questo il vero nome del floricultore), bensì un incrocio particolare di commedia, senso di gentilezza e nostalgia che si stanzia nella storia della sua cinematografia quasi come un commento a pie' pagina leggermente distaccato dal corpo centrale, un corollario, una sigla in un certo senso definitiva (è il suo ultimo ruolo davanti alla camera da presa) capace di riassumere e ridefinire un’etica e un’estetica. Scritto con il crisma della semplicità e della sprezzatura che contraddistingue chi non ha niente da dimostrare e si diverte a raccontare storie per la bellezza delle storie, il film ha infatti l'intensità di un addio forte della propria identità.
Eastwood ragiona sul suo ruolo di cineasta e sul suo ruolo di narratore, considerando la direzione della propria carriera quasi in retrospettiva, rimuovendo dalla storia il sensazionalismo tragico e legando il racconto a un piano esistenziale specifico, necessario per esprimere uno stato di coscienza della fine che non si rivela sguardo ingrugnito e misantropo sulle novità degli schemi del mondo, ma tenero e gentile abbandono a se stessi e ai propri difetti, alle proprie colpe, ai propri rimorsi. A differenza di altri film interpretati dal regista con protagonisti uomini giunti alla fine del giorno, questo è l’unico in cui l’azione dell’anziano non è negativamente interessata agli eventi ma è in pace con le conseguenze di una lunga lista di scelte, consapevoli di un anacronismo comportamentale autoironico e commovente. Il vecchio non è più partigiano mummificato nella propria visione ma è individuo disallineato e liberato grazie alla propria visione, emancipato grazie al proprio personale disinteresse per le regole correnti.
Questo scarto concettuale, che ridimensiona il ruolo delle ideologie personali ed è il risultato di un esame di coscienza personale lucido e autoironico, è il centro di un film che riscrive le logiche del genere attraverso il corpo e la visione del proprio autore. È la senilità leggiadra di Eastwood che in primis allieta e alleggerisce la pesante armatura drammaturgica: la sua formidabile presenza di scena (capace anche solo con inquadrature sui piedi imbranati di adombrare star di primo piano come Bradley Cooper) sconvolge e scardina il contesto di riferimento; la sua azione è improvvisazione scatenata, è magnetismo che rende increduli, rivoluzione che scrive una grammatica inedita per qualsiasi racconto relativo al mondo del narcotraffico. Anche in uno spazio scenico organizzato per diventare spazio teorico western, geografia di genere ostile dominata disseminata di pericoli, la sua lievità fisica e psicologica domina sovrastante.
La resa dei conti non è allora quella che si svolge tra buoni e cattivi nel campo dell’azione: non conta nulla un evento di questo tipo per un personaggio inseguito solo dai ricordi. Il vero snodo è ripiegato nelle mura domestiche, nello spazio in cui i fantasmi diventano facce da affrontare e la famiglia un tribunale a cui sottostare. In queste uniche scene l’impianto leggero cede il passo a un dramma che si fa epica delle emozioni, dei sentimenti e delle relazioni. Non c’è niente di più eroico e tragico a un tempo degli occhi con cui Eastwood osserva il complesso rizoma della sua vita e della totalità della sua esperienza, parlando, ascoltando e ricordando. Non c’è niente che più si avvicina a una pura lezione di visione del mondo e di visione del cinema.
“Il corriere – The Mule” è per il regista allora il momento in cui risulta essenziale la naturalità della riflessione, l’esposizione della propria identità (filmica ed extra-filmica) di fronte alla fine del tempo. Non c’è arroganza nello sguardo di Earl, mai, solo commozione e rimpianto per una serie di scelte compiute con coscienza. Non c’è superiorità nello sguardo di Eastwood, solo tenerezza verso un mondo che sta abbandonando dichiarandosi colpevole, quasi inadatto. Di fronte agli affetti e allo scadere dei minuti, il loro sguardo leggero e appassionato è l’unica cosa che trasforma il ricordo in eredità e il futuro della loro assenza in un testamento.
cast:
Clint Eastwood, Bradley Cooper, Michael Pena, Laurence Fishburne, Andy Garcia
regia:
Clint Eastwood
titolo originale:
The Mule
distribuzione:
Warner Bros.
durata:
116'
produzione:
Malpaso Productions, Imperative Entertainment, Warner Bros.
sceneggiatura:
Nick Schenk
fotografia:
Yves Bèlanger
scenografie:
Kevin Ishioka
montaggio:
Joel Cox
musiche:
Arturo Sandoval