Girare un film come "Il colore viola" a quarant’anni dal successo di un maestro della settima arte come Steven Spielberg significa accettare una sfida impegnativa e mettersi su terreno accidentato e costellato di insidie. In realtà, dal punto di vista del genere prescelto, Blitz Bazawule si rifà più all’adattamento del musical uscito nel 2005 con un libretto di Marsha Norman. Ma anche tale scelta implica comunque un implicito confronto con l’omonimo soggetto originario che, ricordiamolo, nel 1983 valse il premio Pulitzer ad Alice Walker. "Il colore viola" è un caso interessante di come si possa esporre la medesima storia con un racconto innovativo dal punto di vista del linguaggio, della sintassi narrativa e delle modalità espressive. Come coniugare, innanzitutto, un dramma con il musical? Come rendere “accettabile” al pubblico la trasposizione di un soggetto da un codice a un altro?
Non dissimulando, innanzitutto, l’incombenza di modelli ingombranti, ma piegando la loro ombra a vantaggio dell’effetto evocativo. È il caso, ad esempio, del brevissimo cameo quasi in apertura in cui Woopie Goldberg, la protagonista del film di Spielberg, fa da ostetrica a Celie, a sua volta protagonista di quello della Bazawule. Tale cameo svolge nei confronti del pubblico una funzione non meramente citatoria, bensì rassicurante, ovvero quella di permettere l’accettazione e l’adesione al racconto anche se gravato dal peccato originale di non derivare da una sceneggiatura originale. La Goldberg riveste così un ruolo doppiamente maieutico, sia nei confronti del racconto, perchè fa nascere il bambino della protagonista, sia del pubblico, di cui susciterà l'interesse. Altri escamotage usati in apertura dalla regista sono quelli che potremmo definire preparatori. Quando Albert “Mister” Norman corteggia Nettie, lo fa a cavallo e accompagnandosi brevemente con un banjo; in seguito, suona lo strumento seduto sulla sedia di fianco all'abitazione (fig.1), in una posizione del tutto congeniale a quella di tanti personaggi del western, come ad esempio il Wyatt Earp di "Sfida infernale" (1946): è un modo plausibile di preludere all’ingresso nel codice del musical.
Fig.1
Successivamente, una volta guadagnata la complicità spettatoriale, Blitz Bazawule alza l’asticella del film introducendo, all’interno o in chiusura delle sequenze, gli intermezzi musical veri e propri, efficacissimi nell’altalena emotiva dei momenti tristi e di quelli lieti. Inoltre, la presa di coscienza, l’empowerment della protagonista Ceile è rappresentata più dal cambiamento delle musiche che dalla traiettoria offerta dal soggetto di Alice Walker. Avendo infatti la Bazawule rinunciato come Spielberg all’impianto narrativo incentrato sul romanzo epistolare, è la musica a diventare essa stessa motore drammaturgico in quanto Celie estrinseca in essa il suo desiderio di fuga e di affermazione personale. Anche qui la gradualità è un ferreo quanto salutare canone: il primo intermezzo musicale si configura come una sorta di sogno ad occhi aperti, scelta che rende più proclive lo spettatore al trapasso verso il codice musical. Più in generale, se confrontata con quella del film di Spielberg, al netto di qualche concessione all’hip hop, comprensibile per ragioni di cassetta, la musica si configura come aiutante, come suggeritore più che come passivo contrappunto dell’azione.
Sempre rispetto a Spielberg vi è una novità nel delineare i personaggi: imponendo fin da subito una interpretazione religiosa della trama e accostando all’arco di trasformazione di Celie (vittima) quella di “Mister” (carnefice) si determina nella seconda parte del film una camera di compensazione, una sorta di zona grigia di decantazione degli affetti, che supera la visione manichea dell’opposizione binaria bene vs male nel rapporto tra i due sessi. Il marito di Celie è ben più sfaccettato nella versione della Bazawule, non foss’altro perché in quello di Spielberg, tolta la violenza, l’ubriachezza e l’aridità affettiva, non rimaneva molto altro. Nettamente meno curata invece è la figura di Harpo, il figlio di “Mister”, verso cui Spielberg ironizzava per la sua dabbenaggine e le sue frequenti cadute dal tetto.
Decisamente pregevoli costumi e scenografie, soprattutto quelle che fanno da contorno alle musiche: la corpulenta Shug che, vestita di rosso, arrivando dallo sfondo palustre ammalia col suo blues vespertino ("Push the Button") è un pezzo di bravura (fig.2). Quelle prescelte dalla regista sono atmosfere umide e notturne, che trasudano del sud più profondo, che sanno di "Mississippi Burning – Le radici dell’odio" (1988), e pur senza movimentare la macchina da presa allargano la prospettiva dello spettatore. Ma la mano del regista/scenografo si trova a suo agio in ogni contesto. Il prato verdeggiante punteggiato dalle viole in cui sono immerse le passeggiate di Ceile e Nettie, ad esempio, da un lato rimanda al precedente spielbergiano ("Secondo me Dio se la prende se passi davanti al colore viola di un campo qualunque e non ci fai caso", diceva una delle due); dall’altro esalta per contrasto i colori tenui delle vesti delle due giovani. Il temporale che notturno che farà rinsavire “Mister” ha una sua evocatività messianica anche grazie alla posizione fetale dell’uomo contrito ripreso dall’alto.
Fig.2
Pur non essendoci figure religiose di spicco nei ruoli principali, tutto il film echeggia di quella spiritualità e di quel senso di riparazione che i blues e i gospel devono tradurre in musica. In questi frangenti, ad esempio quando si canta "Speak to me, Lord", le atmosfere guardano decisamente a "The Blues Brothers – I fratelli Blues" (1980). A riprova di una regia duttile e padrona del mezzo cinematografico, c’è anche una sequenza in cui, con la complicità della musica, ci viene ricordato che in un musical ci può essere posto anche per un’ambientazione provocatoriamente alternativa. Un fascio di luce azzurra illumina dall’alto un gigantesco grammofono. In basso, sul disco, vi è una tinozza al cui interno Ceile fa il bagno mentre Shug canta tra i solchi di vinile: il trionfo del postmoderno (fig.3). In tale contesto, la presentificazione del tempo permette di attingere al passato con un atteggiamento ludico, e l’euforia dei personaggi consente di esprimere un’emotività che possiamo definire "allegria allucinatoria"[1].
Fig.3
[1] G. Canova, L'alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo. Bompiani, Milano, 2022, pp. 20-22.
cast:
Fantasia Barrino, Tiffany Elle Burgess, Elizabeth Marvel, Louis Gossett Jr., Jon Batiste, David Alan Grier, Ciara , Halle Bailey, Phylicia Pearl Mpasi, Corey Hawkins, Colman Domingo, Danielle Brooks, Taraji P. Henson, Terrence J. Smith
regia:
Blitz Bazawule
titolo originale:
The Color Purple
distribuzione:
Warner Bros.
durata:
141'
produzione:
Harpo Films, Amblin Entertainment, Scott Sanders Productions
sceneggiatura:
Marcus Gardley
fotografia:
Dan Laustsen
scenografie:
Larry Dias
montaggio:
Jon Poll
costumi:
Francine Jamison-Tanchuck
musiche:
Kris Bowers
Stati Uniti, Georgia, 1909. Le due sorelle Celie e Nettie vengono cresciute senza la madre da un padre violento. Un giorno Celie rimane incinta per la seconda volta di suo padre. Poichè il padre non vuole i bambini, li vende neonati e lascia che la figlia sofferente mantenga segreti gli abusi. Per evitare ulteriori problemi, Celie è costretta a sposare il contadino Albert "Mister" Johnson e, di conseguenza, le due sorelle vengono separate. Dopo che anche Nettie è stata violentata da suo padre, deve fuggire nella proprietà di sua sorella, ma “Mister” Johnson la scaccia. Mentre Celie soffre per mano del crudele "Mister", una possibile salvezza appare nella forma della superstar vocale Shug Avery. Insieme a Shug e con la crescente complicità della nuora Sophie, Celie cerca di ritrovare la fiducia in se stessa e di difendersi finalmente dal “Mister”.