È sempre un peccato assistere a un tentativo mancato, al crollare rovinoso di un progetto, all’involuzione di un atto creativo nato per evolversi. “Il Castello di vetro” è proprio questo: un esperimento cinematografico non riuscito, un disegno collassato rovinosamente, un’evoluzione involuta in se stessa. Un fallimento capace di disfare i suoi stessi ambiziosi propositi con grandi doti di masochismo inconsapevole e allo stesso tempo di offrire uno spazio immaginativo in cui giocare e interrogarsi sui motivi della disfatta. Basato su una storia vera, tratto dall’omonimo romanzo di successo e interpretato da nomi di rilievo (su cui spicca Brie Larson), il film è un inconcludente e artefatto dramma famigliare incentrato su una famiglia tragicamente disfunzionale, guidata da un padre controverso e da una madre emotiva, e animata da una piccola schiera di bambini con grandi capacità di sopportazione e resilienza. Niente di nuovo sul piano della proposta narrativa, non fosse per l’eco emotiva del presupposto realistico: è l’ulteriore racconto (dopo i recenti e più riusciti “Captain Fantastic” e “Un affare di famiglia”) del microcosmo di una famiglia divisa tra affetti, dolori, sollievi e dissidi polarizzati all’estremo.
Quest’ultimo non sarebbe un elemento di negatività se ci fosse qualche cosa di valido sul piano della capacità comunicativa. Purtroppo, nemmeno su questo livello – quello legato alla forza dei concetti e al loro potere extra diegetico – “Il Castello di vetro” funziona. Costruito come un racconto fortemente metaforico strutturato in due zone temporali differenti lentamente avvicinate dalla narrazione climatica, il film cerca di sviluppare e di esplicitare l’ anti convenzionalità della sua storia attraverso costruzioni di senso, perifrasi, figure visive e simmetrie per disegnare un affresco famigliare governato da ossimori commoventi e punteggiato di momenti di lancinante intensità; ciò che ottiene però è una narrazione sbilanciata, che prima si perde e temporeggia su momenti di stallo reiterati per una eccessiva durata e poi chiude le fila nei momenti finali utilizzando l’emotività e il pathos sentimentale come semplificatori di problemi. Non solo però, perché il film del giovane Destin Daniel Cretton si dimostra quasi partecipe di grandi scorciatoie drammatiche piuttosto forzate e di passi falsi incapaci di risolversi in qualche rilancio valido.
Colpevole l’uso di un impianto descrittivo utilizzato senza proporziono o senso della prospettiva narrativa, pur al netto di un arco drammaturgico potenzialmente capace di insinuarsi nella testa con la controversia e l’ambiguità propria dei racconti dotati di sfumature morali su temi delicati. La storia, nell’America degli anni ’70 e poi degli ’80, della presa di coscienza dei bambini delle nefandezze dei loro genitori – da una parte un sognatore alcolizzato (Woody Harrelson) e dall’altra una donna mangiata dall’affetto per il marito e per se stessa (Naomi Watts) – più che il racconto dell’estrema complessità di ogni nucleo famigliare e della bellezza collaterale presente in ogni esistenza infelice è il catalogo episodico di caratteri poco specificati, gestiti per emozionare a tavolino con grandi gesti e piccole crudeltà, momenti di tragico compatimento e di provvidenziali risoluzioni all’ultimo minuto. Un insieme sfocato e sbagliato di intenzioni e intuizioni, tanto indeciso sul proprio racconto e tanto abile nel sabotaggio del materiale di partenza da risultare alla meglio quasi ingenuo e alla peggio in cattiva fede. Non un gran risultato.
cast:
Brie Larson, Naomi Watts, Woody Harrelson
regia:
Destin Daniel Cretton
titolo originale:
The Glass Castle
distribuzione:
Lionsgate
durata:
127'
produzione:
Gil Netter Production
sceneggiatura:
Destin Daniel Cretton, Andrew Lanham, Marti Noxon
fotografia:
Brett Pawlak
montaggio:
Nast Sanders
musiche:
Joel P. West