Superati gli ottant'anni, il napoletano Antonio Capuano, come se non fossero sufficienti le opere firmate fino a questo momento, pone in calce fin dal principio del suo ultimo film la sua aspirazione indiscutibile. "Il buco in testa", che si apre con un treno che entra in una stazione, è dedicato ai fratelli Lumière (oltre che al compianto Gianni Minervini, il produttore de "L'amore buio" di una decina d'anni fa). E questa dedica, così scollegata dal senso della pellicola, sta lì a significare qualcosa che andrebbe messo ben in evidenza: Capuano è, prima di tutto, un grande regista, un autore che rispetta profondamente il mezzo cinematografico e che non intende esimersi dalle regole della messa in scena. Troppo spesso sottovalutato, o considerato essenzialmente solo un profondo conoscitore del tessuto sociale campano e, più in generale, del Mezzogiorno, in realtà Capuano ha sempre lavorato su più piani, riuscendo a sovrapporre le sue urgenze narrative strettamente connesse con il territorio, la memoria individuale, lo spirito indomito di denuncia, a una riconoscibile e personale capacità di inquadrare attraverso la cinepresa un senso peculiare del reale.
Ne "Il buco in testa" il suo utilizzo della macchina-cinema si fa ancora più esplicito; lo è nella scomposizione dei piani temporali (esiste un presente e un flashback, ma quest'ultimo è il vero asse portante del racconto), lo è nell'annullamento della quarta parete, con la protagonista che guarda in macchina per raccontare di sé e per fare da raccordo, con la sua voce, alle svolte della sceneggiatura, ma lo è anche, più semplicemente, nell'uso naturale delle ambientazioni urbane, che diventano loro stesse protagoniste e dominatrici dello spazio di scena. Insomma, ancora una volta e più che in passato, è il cinema stesso e il suo potere immaginifico che diventano per Capuano strumenti attraverso cui riflettere sulla Storia, sulle sue conseguenze nel presente e su come gli eventi passati e attuali incidano sulla vita delle persone. Liberamente ispirato alla vicenda di Antonia Custra, la quale nel 2007 incontra l’uomo che uccise suo padre, il vicebrigadiere del terzo reparto celere di Milano Antonio Custra, a Milano il 14 maggio 1977, "Il buco in testa" è quella voragine che si è aperta nella testa della protagonista Maria, nata due mesi dopo la morte di suo padre in servizio. Quarantenne di Torre del Greco, abita con la madre che da allora ha perso la voce, e vive come in una eterna fase di sospensione. Giornate uguali una all'altra, piccoli lavoretti anche non pagati nella speranza di acquisire punteggio e passare un concorso a scuola, flirt poco convinti, tante sigarette e ricerche su internet sulla sorte dell'uomo che ha scontato la sua pena per aver ucciso suo padre. La Storia letta secondo la lente d'ingrandimento di Capuano non è un residuato impolverato o un ammasso di ricordi o una catena di eventi da ricostruire; è, piuttosto, la fotografia di una contemporaneità scalcinata e degradata, priva di punti di riferimento e complice delle abiezioni sociali che circondano i protagonisti. Lo sguardo che il regista napoletano getta sulla vita di comunità di Maria è acuto e stratificato: quella serie di drammatici fatti degli anni 70, con i fascisti nelle città e i militanti di estrema sinistra a contrastarli scegliendo come bersagli delle loro manifestazioni violente le forze dell'ordine, irrompe nell'Italia del nuovo millennio con un nesso di causalità netto e stupefacente. Maria e il suo buco in testa non vivono in questo lembo di terra tra il mare e il vulcano per puro caso: ella fa parte pienamente di un'esistenza collettiva disastrata, è partecipe e colpevole dell'ignoranza, della maleducazione, della connivenza con la criminalità. La disillusione che attanaglia la sua esistenza è caratterizzata dallo stesso grigiore con cui Capuano riprende l'arenile, il molo dei pescatori, i vicoli, gli edifici pubblici, i cantieri abbandonati, gli interni degli appartamenti ammassati gli uni sugli altri.
La lucidità dello sguardo cinematografico dell'autore gli permette di fare un film politico senza affrontare dialoghi politici praticamente mai, di realizzare una pellicola di respiro storico pur senza mai realizzare scene ambientate in un'epoca passata. Come si diceva, infatti, la Storia ci viene restituita attraverso gli effetti che ha provocato nella vita delle persone e ancora una volta è una guerra tutta interna al proletariato: quello che si dichiara tale e quello che lo era nei fatti (che altro erano se non questo i giovani che entravano in polizia sperando in un avvenire meno incerto?). E anche nell'osservazione della situazione attuale, Capuano è su quel sottoproletariato urbano che si concentra: nelle ambiguità di uno Stato assente, di un'ignavia nel giudizio dei fatti storici, nella mancanza di una reale giustizia e, diremmo a ragion veduta dopo il finale del film, anche di una pacificazione realmente sentita, in tutto questo alligna la ragione per cui episodi di quarant'anni prima ancora giocano un ruolo così importante nel destino dei personaggi messi in scena.
Teresa Saponangelo, impressionante protagonista della pellicola, affronta il suo difficile incarico sul set senza alcuna soggezione di questa macchina da presa che la inquadra da vicino, ne mette in risalto ogni imperfezione, ogni minima smorfia. E d'altronde, nella direzione degli attori, Capuano prende una decisione inequivocabile: è un film su Maria e gli altri, su Maria e Torre del Greco, su Maria e la memoria, su Maria e il dolore, su Maria e il suo buco in testa. Nell'inquadratura è lei a guadagnare sempre il centro della scena, con gli interlocutori confinati ai margini o, in alcuni casi, ripresi di quinta o di spalle, sull'orlo dell'uscita dal quadro. Il codice tecnico di Capuano si annulla nel cambio di ambientazione e di tono che si verifica con lo spostamento della vicenda a Milano. Un presente, rispetto ai flash di Torre del Greco, di durata residuale, quello ambientato nel capoluogo lombardo, frammentato e senza un vero fluire narrativo. La trasferta di Maria per incontrare l'uomo che ha ucciso suo padre negli anni 70 è, infatti, una sequela di istantanee, un caffè, una stretta di mano, un'escursione in autobus sui luoghi degli scontri fra polizia e militanti. La tensione è palpabile e sottotraccia nel serrato confronto tra i due in trattoria (a interpretare l'ex galeotto c'è Tommaso Ragno); in questo frangente Capuano scrive un dialogo arguto e privo di semplificazioni. Entrambi hanno posizioni in balia dell'incertezza, smarriti fra dubbi e ragioni di partenza tutto sommato legittime. Al regista, però, non importa analizzare il contesto politico dell'epoca, né tantomeno trasformare il botta e risposta in una discussione sui fatti storici. Il senso della scena è nell'accettazione finale, nella presa di coscienza che, al netto di processi e indagini, per i protagonisti l'unica arma possibile è il compromesso con se stessi, un'amnistia verso l'altro per tentare di andare avanti. Lo dice proprio Maria, mentre prende il treno per tornare a casa: com'è bello fare la pace, pensa rivolgendosi idealmente a sua madre. E com'è liberatorio, verrebbe da aggiungere mentre la si osserva addormentarsi al posto finestrino.
cast:
Teresa Saponangelo, Tommaso Ragno, Francesco Di Leva
regia:
Antonio Capuano
durata:
95'
produzione:
Eskimo
sceneggiatura:
Antonio Capuano
fotografia:
Gianluca Laudadio
scenografie:
Antonella Di Martino
costumi:
Francesca Balzano