Una novizia diciottenne, orfana, ignara della realtà esterna e straordinariamente sensuale perde, piano piano, la vocazione. Come la Viridiana di
Luis Buñuel, nell'omonimo film del 1961. "Ida" è ambientato praticamente negli stessi anni, nel '62, in un altro contesto dittatoriale. Non più la Spagna di Francisco Franco, ma la Polonia comunista. Per entrambe, la decisione matura al termine di una parabola esistenziale, che assume tuttavia connotati alquanto diversi. Se l'ambiente circoscritto della villa di un anziano
hidalgo suo parente era il teatro in cui si consumava la sconsacrazione del personaggio interpretato da Silvia Pinal, per la giovane incarnata dalla non professionista Agatha Trzebuchowska la decisione matura al termine di un inconsueto
road movie. E passa da una profonda crisi di identità circa le proprie origini familiari, etniche, religiose; da esperienze di vita notturna, in cui non può concedersi alla musica (sia polacca sia occidentale) e al divertimento; dalla passione erotica (più che amorosa) tentatrice, di un corpo che deborda dal castigo degli abiti sacri. E infine dal rapporto con una zia (di nome Wanda, con le sembianze di Agata Kulesza) di cui ha notizia poco prima di prendere i voti, che la accompagna nel suo percorso provocandola insistentemente - ma senza cattiveria - sulla fede, e che la abbandona in maniera tragica. Proprio come lo zio di Viridiana (ci tocca insistere anche perché, stranamente, di tali evidenti similitudini non si è accorto nessuno).
Ma l'opera quinta di Pawel Pawlikoski, cineasta "esule" in Inghilterra dopo un breve peregrinare, che qui torna ai tempi e ai luoghi della sua infanzia ("alcuni fotogrammi potrebbero essere fotografie del mio album di famiglia"), ha anche l'ambizione di restituire uno spaccato dell'epoca, di un Paese ferito da un passato di sangue: vittime gli ebrei, carnefici i connazionali polacchi; e da un presente storico asfittico, segnato da un socialismo repressivo e crepuscolare (accidenti, che novità!). A racchiudere le contraddizioni del contesto è la figura di Wanda, apparentemente realizzata nel suo lavoro di procuratore, quanto depressa e persa nell'alcolismo; dalle aspirazioni borghesi e libertine. Un piglio ideale per transitare dalle carceri dello stato; possibile che, nella sua fragilità, celi anche un curriculum da aguzzina, oltre che da militante partigiana?
Il regista, insomma, punta molto in alto, provando a sviscerare l'impossibile* in soli 80 minuti di pellicola, con un'ammirevole economia narrativa (tra una piccola ellissi e una spiegazione in più, la scelta è sempre per la prima soluzione), avvolgendo il racconto in un bianco e nero religiosamente casto (appunto) - firmato da Ryszard Lenczewski e Lukasz Zal -, e incorniciandolo in un formato desueto (1:1,37); non sgarrando mai nell'austero rigore estetico che si autoimpone.
Tuttavia, spiace dirlo, ma il tentativo sostanzialmente fallisce. La parabola solcata da Ida appare inevitabilmente frettolosa, superficiale. E davvero troppo poco credibile.
Un po' come, a suo modo, in un lavoro stilisticamente agli antipodi quale è
il film americano di Paolo Sorrentino, le due principali tematiche - crisi personale e strascichi del passato sul presente (la questione ebraica, poi, è tema buono per entrambe e per tutte le stagioni...) - non legano affatto l'una con l'altra, neanche tirandole per i capelli.
E in questo caso ne esce un'opera fredda, estetizzante; perfetta, grazie al suo ignavo cerchiobottismo per cui non ci sono colpevoli e innocenti assoluti, per raccogliete gli unanimi entusiasmi delle giurie dei festival, di colleghi autori più o meno indipendenti (Alexander Payne ne ha cantato le lodi), di cattolici dall'animo inquieto, di critici attempati pronti a scomodare, niente meno, che Robert Bresson e altri mostri sacri.
*"Ida è un film sull'identità, la famiglia, la fede, il senso di colpa, il socialismo, la musica. Volevo fare un film sulla storia che tuttavia non sembrasse un film storico, un film con una morale ma senza lezioni da impartire..."
13/03/2014