Quale è il futuro di quei talentuosi registi francesi che si erano messi in luce nel decennio passato animando una tanto viva quanto cruenta stagione del cinema horror? Sono forse, come Alexandre Aja ("Alta tensione", 2003), destinati ad essere fagocitati dalla onnivora cinematografia hollywoodiana dell'intrattenimento fine a se stesso? Semplicemente scomparire dalla scena come il belga Du Welz ("Calvaire", 2004, e "Vinyan", 2008)? Oppure provare a portare avanti le proprie teorie con coerenza, ma perdendo smalto di pellicola in pellicola come la coppia Bustillo e Maury ("A l'interieur", 2007, e "Livide", 2011)? Dopo aver risollevato le sorti in terra europea di un genere logoratosi negli anni è possibile assumere che questa generazione di registi non abbia più qualcosa di significativo da dire?
Se il nouveau cinéma d'horreur aveva saputo far tesoro della lezione del maestro Carpenter rileggendola alla luce della turbolenta lotta politica di inizio millennio dove emergeva il disagio e la rivolta delle banlieue parigine e l'alienazione sociale, politica e psichica degli individui, facendo scivolare il grottesco in un gore profondo e disturbante, forse il periodo di transizione una volta consolidatosi in status quo non ha più generato i mostri necessari per alimentare le fantasie dei cineasti? O forse semplicemente quando la crisi politica viene inghiottita da quella economica il cinema horror non riesce a trarne una lezione importante (almeno quanto c'è riuscito Johnnie To con "Life Without a Principle", 2011)? Alcune risposte a tutte queste domande ce le offre Pascal Laugier ("Saint Ange", 2004, e "Martyrs", 2008), uno dei più interessanti registi di quel nuovo cinema dell'orrore francese, con la sua pellicola "I bambini di Cold Rock".
Connettendo strettamente il piano economico a quello sociale Laugier ci racconta una storia di mostri contemporanei, di freak del collasso economico e del loro mondo di penombra senza inondarlo con cascate di sangue, ma anzi ribaltando tutto quello che aveva mostrato nel precedente "Martyrs", un lucido saggio di sadismo cinematografico. Il regista rovescia le logiche del torture movie pur mantenendo il focus sul rapporto di una comunità con i propri figli. Allora nella cittadina americana (ma l'ambientazione canadese è piuttosto evidente) di Cold Rock che speranze e che prospettiva di vita hanno i bambini quando la crisi economica abbatte la principale fonte di sostentamento locale? Quando la frustrazione economica squarcia il tessuto sociale nel quale sprofondano come in una voragine gli adulti, alcolizzati, depressi e senza oriente, a pagarne le conseguenze sono spesso i più piccoli. Quando allora nella cittadina i bambini iniziano a scomparire la paura si diffonde virale e nelle fantasie locali assume molteplici sembianze: un molestatore! Il diavolo! L'uomo Alto che risuona nel titolo originale della pellicola ("The Tall Man") e che diviene lo spauracchio locale, il mostro attorno al quale si crea una leggenda suburbana. L'Uomo Alto porta i suoi bambini tra la fitta vegetazione dei boschi e nessuno li rivede più. Destreggiandosi nel groviglio in cui la storia si attorciglia Laugier ci offre una regia calibrata e raffinata regalandoci quella che è la migliore interpretazione nella carriera di Jessica Biel, la sorpresa nel trovare l'attrice tanto nel personaggio aiuta l'inabissarsi dello spettatore nel meccanismo del film che anticipa il momento clou, quel dénouement che oramai è un elemento inaggirabile nelle strutture narrative dei film del regista francese, il quale riesce a sterzare la direzione della pellicola senza farla finire in un cul de sac, una strada senza uscita. Le regole del gioco si capovolgono, tanto all'interno del film stesso quanto all'interno della cinematografia di Laugier che si dimostra capace di giocare anche a livello meta cinematografico tanto con le sue pellicole precedenti quanto con i capi d'opera del nouveau cinéma d'horreur aprendo il respiro di questo film all'aria che tira nella presente era del cinema horror (che culmina nell'epitomico manifesto teorico di "Quella casa nel bosco", 2012).
Si capovolge allora l'idea di martirio che animava la pellicola precedente, quando un bagno di sangue sfumava in un'allucinazione mistica; si capovolge il gioco vittima-carnefice, ma non con il semplice ribaltamento delle due figure, le quali finiscono in un mulinello che ci impone di rivalutare tutto quello che avevamo dato per scontato: andando sempre più al fondo dei segreti nascosti sotto la superficie della cittadina lo sguardo di Laugier affronta e decostruisce diversi topoi del genere. Squarciando il velo delle apparenze il regista ci impone di guardare tra le pieghe di un sistema che si è rotto, tra le venatura di un mondo che lascia indietro una sua frazione abbandonandola a se stessa. Questa, ferita e agonizzante, lotta contro la corrente, contro i suoi mostri e un destino avverso per trasformare l'oppressione in un'occasione di speranza. Ma forse, in fin dei conti conclude il film, non è detto che ci meritiamo qualcosa di meglio del presente che abbiamo.
Anche se un'ingenuità di fondo attraversa l'intera pellicola chiudendola in un corto circuito (di cui è impossibile dire di più senza svelare elementi determinati del plot) ne risulta comunque l'originaria genuinità di questo film, che spicca nel panorama contemporaneo degli horror-usa-e-getta. Agitando i nostri sonni col suo nuovo incubo Laugier al contempo ci permette di dormire tranquilli, memori che là fuori c'è sempre qualcuno pronto a disegnare nuovi mostri, a scoperchiare il vaso di Pandora nel quali inconsci e incoscienti quotidianamente viviamo.
cast:
Jessica Biel, Jodelle Ferland, William B. Davis, Samantha Ferris
regia:
Pascal Laugier
titolo originale:
The Tall Man
durata:
106'
produzione:
Cold Rock Productions BC
sceneggiatura:
Pascal Laugier
fotografia:
Kamal Derkaoui
scenografie:
Sydney Sharpe
montaggio:
Sébastien Prangère
costumi:
Angus Strathie
musiche:
Todd Bryanton