"Si dice spesso che gli uomini siano più intelligenti degli animali, ma consideriamo questo aspetto: gli uomini si uccidono tra loro, gli animali mai tra la stessa specie". Questo vecchio aforisma calza a pennello per l’esordio alla regia di Pietro Castellitto, premiato come Miglior Sceneggiatura nella sezione Orizzonti alla Mostra del Cinema di Venezia. I suoi "predatori", infatti, vorrebbero cacciare cinghiali, ma finiscono sempre per puntare ai propri simili, spennando con l’affabulazione vecchiette indifese o provando a ricorrere ad armi da fuoco. Al centro delle vicende due famiglie all’apparenza quanto più opposte: i Vismara proletari e fascisti; i Pavone intellettuali e borghesi. Nuclei opposti che condividono la stessa giungla, Roma, e che un banale incidente farà collidere.
Un bestiario umano che Castellitto ritrae con sguardo lucido, senza mai ridurre i personaggi a macchietta, allo stesso tempo impietoso e audace, per come mette a confronto e traccia parallelismi tra i due universi. I Pavone si ritengono superiori, portatori di verità e dalla fulgida carriera, senza accorgersi della nevrosi e schizofrenia che emerge continuamente con evidenti sintomi: versano vino bianco sul pavimento e si stringono la mano tra padre e figlio come tra uomini d’affari. Alla cena per il compleanno della nonna, parlano letteralmente lingue diverse, l’unica comunicazione possibile è attraverso insulti e dito medio, nessuno si accorge del malessere che affligge il vicino di posto. Anche il tradimento è un divertissement, condotto senza patemi né conseguenze. La cultura che dovrebbe contraddistinguerli è a un livello becero e degradato: si riesuma la salma di Nietzsche per capire se, come si discute, fosse morto vergine; i grandi discorsi filosofici sono materia da pub che vanno presto in frantumi come le pinte di birra, i David di Donatello prendono polvere sugli scaffali e diventano strumenti utili per compiere un furto. I Vismara, invece, vivono nel sottobosco, vendono armi illegali, si dichiarano estremisti attraverso un’ideologia che per loro è questione unicamente di simboli e slogan. Ma, seppur non manchino gli screzi, quando la loro madre anziana è in ospedale si riuniscono per andare a trovarla, giocano e lavorano insieme, a tavola bonariamente si prendono in giro. Moglie e marito coltivano un rapporto sincero, decidendo di rimanere insieme pur nelle difficoltà: se c’è un vetro a dividerli, allora il riflesso li può unire nella medesima inquadratura. Qualcosa però accumuna i due poli: in entrambe, il giovane componente vorrebbe emanciparsi da una figura adulta, uno zio o un professore che lo considera e gli si rivolge come a un incapace (e forse questo trattamento è la causa e non l’effetto della loro inettitudine). Oltre al fatto che tutti fantasticano una vita diversa, in cui essere qualcun altro (chi Oprah Winfrey perché "così faccio bei discorsi che tutti ascoltano", chi ha creduto sul serio di essere Giovanni Agnelli) o in cui comprare, fra mille anni, l’Altare della Patria. Ad un certo punto, mentre alcuni di loro giocano a ping pong, la macchina da presa si innalza, seguendo la traiettoria della pallina sparata in aria. La possibilità di puntare al cielo dura però solo pochi istanti: questa, col tragitto inverso, ricade subito sul tavolo. Ugual destino dei personaggi umani che, al di là dei loro sogni, restano ben ancorati alla terra, alla gretta materialità della loro quotidianità.
"I Predatori" è dunque una boccata d’aria fresca nel paludato filone della commedia italiana, assomigliando a nient’altro e rimanendo per certi versi corpo estraneo e inclassificabile. Castellitto, passato dietro la macchina da presa di un lungometraggio neanche trentenne, potendo contare sull’appoggio di Fandango e Rai Cinema (evento più unico che raro oggi nel nostro Paese), non pecca di insicurezza ma anzi tiene le fila con destrezza e polso sicuro. L’intenzione di sfuggire a qualunque etichetta è palese a partire dalle prime scene, in cui trasmette un senso di attesa, un sentore di stranezza, attraverso prospettive ricercate e ardite, frammentazione delle figure, attimi di rapidissimi stacchi di montaggio. Gioca con le aspettative dello spettatore, aprendo diverse linee narrative che sembrano non portare da nessuna parte, ma che confluiscono in un finale spiazzante. Veicola il grottesco non pigiando mai sull’acceleratore della farsa: le risate sono poche e a denti stretti. Al divertimento subentra un certo disturbo, disagio, nel realizzare come la realtà ritratta, su cui non grava il peso di facili condanne moralistiche, sia troppo "realistica" rispetto alle sue derive surreali, in cui il film non naufraga mai.
cast:
Massimo Popolizio, Giorgio Montanini, Pietro Castellitto, Manuela Mandracchia, Vinicio Marchioni
regia:
Pietro Castellitto
distribuzione:
01 Distribution
durata:
109'
produzione:
Fandango, Rai Cinema
sceneggiatura:
Pietro Castellitto
fotografia:
Carlo Rinaldi
scenografie:
Luca Merlini
montaggio:
Gianluca Scarpa
costumi:
Isabella Rizza
musiche:
Niccolò Contessa