Basterebbe il titolo, tanto lungo quanto esplicativo, per mettere a fuoco l'intento che sta alla base di questo "I Don't Feel at Home in This World Anymore", esordio alla regia di Macon Blair, premiato con il Gran Premio della Giuria alla scorsa edizione del Sundance Film Festival.
L'opera prima dell'attore statunitense - ora distribuita anche in Italia grazie a Netflix - è un perfetto esempio di film indipendente, capace di scivolare con destrezza tra generi diversi, senza rimanere ingrovigliato in nessuno di essi e mantenendo dunque una certa autorialità priva di etichette. Questa sorta di commedia nera, che ha il retrogusto del thriller e che non disdegna certe venature pulp, ma il cui umorismo nasconde in realtà una ben celata drammaticità (può probabilmente ricordare in questo alcune opere dei
fratelli Coen), è uno sfogo liberatorio e scanzonato nei confronti di un mondo in cui sembrano governare gli incapaci e gli irrispettosi, in cui quanto più uno cerca di essere onesto e giusto, tanto più sembrerà ingenuo e avrà la vita difficile; un mondo in cui, appunto, risulta sempre più difficile sentirsi a casa.
Per sottolineare questo aspetto la narrazione sceglie come protagonisti due outsider, incapaci di trovare il loro posto in una realtà ricolmo di ingiustizie e di prepotenze impunite: Ruth è una donna di mezza età, single, infermiera in una clinica per anziani, le cui giornate trascorrono scandite dal ritmo di piccoli ma costanti dispiaceri. Quando però la sua abitazione viene svaligiata da dei ladri la sopportazione arriva al limite e comincia la ricerca del riscatto nei confronti di tutti quei teppisti, piccoli o grandi che siano, che infestano il mondo. Ad aiutarla nella sua missione sarà Tony, un metallaro fissato con le arti marziali, anche lui solo e incompreso, in debito con Ruth per aver abbandonato i bisogni del cane nel giardino di questa.
Da questo semplice soggetto lo stesso Blair ricava una sceneggiatura brillante, in grado di gestire alla perfezione i ritmi e i tempi della commedia, ma capace anche di tessere i momenti divertenti assieme ad altri ben più drammatici, ottenendo un risultato comunque solido e per nulla eterogeneo, che sa far riflettere senza appesantire, che rimane leggero e ironico anche nei momenti più amari e angosciosi e che ha tutte le carte in regola per regalare al suo autore un posto non secondario all'interno del panorama indie contemporaneo.
Anche la caratterizzazione dei personaggi sembra il frutto di una penna esperta, sapiente nell'evitare i cliché, ma abile anche nel definire dei caratteri che rimangono impressi nello spettatore anche dopo la visione: Ruth (interpretata dalla Melanie Lynskey di "Due uomini e mezzo") è dunque la tipica donna mediocre e succube da cui non ci si aspetterebbe nulla di straordinario, ma che diventa invece, una volta presa coscienza di se stessa, un'indomabile cacciatrice di criminali, capace di tutto pur di portare a termine la sua missione di giustizia.
Tony (che ha il volto di un ottimo Elijah Wood) è invece una perfetta spalla, goffa e stramba quanto basta a divertire, ma mai limitata agli aspetti buffoneschi, centrale anche nei momenti di maggiore serietà e riflessione: è lui che rimprovera Ruth quando questa rischia di trasformarsi a sua volta in una criminale, è a lui che appartiene il maggior senso di giustizia, mascherato da una religiosità bizzarra ed esternata nei momenti meno opportuni.
L'ultimo accenno va alla colonna sonora, costituita per lo più di brani metal più o meno pesanti, ottimo accompagnamento in grado di colorare le sequenze di un carattere ancora più rock e spregiudicato.
Insomma è bene che di un'opera come questa se ne parli, sia perché è l'esordio coi fiocchi di un regista ancora giovane e promettente, cui si augura di sfornare ancora diversi prodotti di qualità, sia per evitare che essa si smarrisca nel mare di proposte e titoli (spesso poco convincenti) di una piattaforma così chiacchierata e discussa la quale rappresenta, nel bene o nel male, un tassello fondamentale dall'attuale mosaico cinematografico.
14/09/2017