E non è mia intenzione raccontare una storia: il mondo ormai soffoca nelle storie e nelle cosiddette narrazioni, e tutto è storia e narrazione, a prescindere dal contenuto
V. Trevisan, Il ponte. Un crollo, 2007
Dopo che "I dannati" ha vinto a Cannes il premio per la Miglior regia nella sezione Un Certain Regard, si è parlato diffusamente del superamento del documentario da parte di Roberto Minervini, o, che è lo stesso, del suo definitivo passaggio alla fiction. A ben vedere, in realtà, non ha mai avuto senso cercare di individuare una componente finzionale o una realistica nella sua filmografia, dato che il regista ha sempre travalicato questa contrapposizione disinteressandosene e attingendo a piene mani da entrambi gli ambiti per realizzare una propria e assolutamente originale idea di cinema. La polarità duale relativa alla supposta verità filmica e alla sua controparte fantastica viene in realtà assorbita compiutamente nel concetto di performatività, ovvero nell’incontro fra osservatore e osservato al fine di testimoniare, tramite la macchina da presa, la relazione che ha avuto luogo tra interpreti e regista. Minervini, infatti, ha sempre fondato i propri lungometraggi su un profondo coinvolgimento con le persone filmate: si inserisce in comunità ristrette e partecipa alla vita quotidiana di queste ultime per mesi o anni, in modo da sviluppare un rapporto di intimità e fiducia con chi viene ripreso, finendo con il realizzare dei lungometraggi che si pongono come testimonianze dell’incontro e della relazione avvenute tra osservatore e osservati.
Anche ne "I dannati" si ripete questo modus operandi, dato che molti degli attori presenti nel film provengono da lungometraggi precedenti e sono legati al regista da un rapporto affettivo e professionale che perdura da anni: ad esempio, Jeremiah Knupp aveva recitato in "Voodoo Doll" (2005), uno dei primi cortometraggi studenteschi di Minervini, oltre ad aver svolto il ruolo di aiuto regista in "The passage" (2011); mentre Noah, Judah e Tim Carlson erano comparsi nell’ultimo lungometraggio citato ed erano stati i protagonisti di "Ferma il mio cuore in affanno" (2013).
La centralità della relazione umana nel metodo di lavoro di Minervini non si ferma a questo aspetto professionale e affettivo, ma costituisce l’elemento fondante del processo di scrittura e di regia, così da dare luogo a una creazione collettiva del film. Nei lungometraggi precedenti, infatti, regista e attori hanno deciso insieme cosa filmare, selezionando e ricreando degli stralci delle loro vite davanti alla macchina da presa: ad esempio, in "Louisiana" (2015) la scena della ballerina spogliarellista viene proposta dal marito di quest’ultima, desideroso di raccontare il successo lavorativo della moglie; invece, in "Ferma il tuo cuore in affanno" Minervini chiede a madre e figlia di ripetere una conversazione riguardante la promessa di purezza fatta a Dio, verificatasi quando la protagonista aveva quattordici anni e rinnovata alla luce della crescita di quest’ultima ormai diciottenne.
Allo stesso modo, anche gli attori de "I dannati" sono stati chiamati a contribuire al film con il proprio bagaglio personale di credenze, convinzioni e valori morali: ad esempio, i membri della famiglia Carlson interpretano un padre e due figli molto devoti, al centro di alcuni dei dialoghi più interessanti del lungometraggio, che li vedono intenti a discutere della loro fede durante il conflitto e del fondamento religioso della guerra. Questi tre interpreti hanno nella realtà lo stesso vincolo di parentela e provengono davvero da un milieu familiare molto religioso e devoto, come è stato raccontato in "Stop The Punding Heart".
Dunque, gli attori rimangono loro stessi pur trasmigrando da un film all’altro e portano il proprio io di fronte alla macchina da presa più che interpretare un personaggio, finendo con l’arricchire il lungometraggio con la loro interiorità.
Alla base del processo di creazione collettiva si pone la scelta di Minervini di “farsi da parte”, come lui stesso ha avuto modo di dichiarare a Dario Zonta in "L’invenzione del reale" (2017), a favore della relazione con gli altri, di coloro cioè che hanno preso parte alla realizzazione del lungometraggio. Ne "I dannati" questo si è verificato a partire dal momento in cui l’idea del film è stata presentata al pubblico al fine di reclutare gli attori: ciò è avvenuto nel Consiglio comunale di Helena, la capitale del Montana, in cui il regista ha offerto una parte a tutti coloro che si erano presentati, specificando inoltre la natura aperta del progetto, caratterizzato, in quel momento iniziale, unicamente da una vaga idea, una sorta di bozza minimale comprendente pochissimi elementi: un titolo, “I dannati”, la volontà di filmare un viaggio e uno scontro.
Questo canovaccio iniziale è stato pian piano arricchito nel corso della lavorazione attraverso il rapporto con gli attori, i cui dialoghi non provengono da un copione ma bensì dalle conversazioni avvenute fra di loro e con il regista. È quella che Minervini stesso definisce “non scrittura”, cioè una sorta di sceneggiatura che avviene durante e dopo le riprese, basandosi sul contenuto con cui ognuno desidera arricchire il film e sulla visione del materiale già girato. I componenti del lungometraggio, cioè gli attori e il regista, realizzano la trama capendo tutti insieme come inserire le proprie idee e come armonizzare le varie parti: il prodotto finale è quindi il frutto della relazione fra le singole parti che compartecipano alla sua realizzazione.
Questa particolare modalità realizzativa spiega la compresenza interna al film di una trama molto esile, costituita da una battaglia centrale che divide in modo radicale un prima e un dopo di essa, e di alcuni elementi, come personaggi, dialoghi e scene, che si caricano di importanza e tendono a emergere rispetto all’intreccio. Infatti, oltre alla centralità di alcuni dialoghi, come quello relativo alla fede durante il conflitto, la macchina da presa indugia spesso sul viso e sui corpi dei soldati mentre parlano, marciano e svolgono semplici attività, come lavarsi al fiume e maneggiare le proprie armi, realizzando delle splendide sequenze che tendono a estraniarsi del racconto e a caricarsi di una grande forza sensoriale e materica: Minervini si sofferma spesso sui visi rugosi e imperfetti dei soldati, sui fiocchi di neve che si accumulano sulle barbe, oltre che sulla corporeità cruda delle mani insozzate e delle unghie consumate dalla fatica, inoltre indugia sui suoni della natura in cui i soldati vagano, sul rumore del vento che sferza con forza il crine dei cavalli e su quello dell’acqua che scorre nei piccoli rigagnoli.
La dialettica tra trama e singole sequenze fin qui delineata viene tuttavia completamente rovesciata nella scena centrale del film, quella della battaglia: le immagini perdono di importanza, dato che i soldati vengono ripresi immobili, sdraiati sul terreno per evitare di essere colpiti e mentre tentano di sparare a un nemico invisibile che non verrà mai mostrato. A emergere è invece il sonoro: si verifica un improvviso aumento del volume finalizzato a enfatizzare gli spari, che in questo modo sovrastano ogni altro aspetto della scena, e viene inserito il fragore di armi (una granata e un AR-15) che verranno inventate solo successivamente alla guerra civile americana in cui è ambientato il film. Così facendo, l’immagine diventa quindi un semplice supporto, essendo degradata a significante privo di significato, che viene completamente vincolato dal sonoro: la profonda insensatezza di ogni guerra, l’impossibilità di trovare giustificazioni e l’isolamento disumanizzante che ne deriva.
Come nei suoi lungometraggi precedenti, Minervini sceglie di raccontare gli Stati Uniti da una prospettiva personale: ne "I dannati" realizza un film di guerra e, al contempo, si oppone alla spettacolarizzazione anestetizzante del conflitto che caratterizza tradizionalmente questo filone. Come si è appena visto, il regista sabota il genere tramite la mancata rappresentazione della battaglia, cioè l’elemento cardine che lo caratterizza: quello che viene filmato è uno scontro senza nemico, senza movimento (dato che i soldati vengono mostrati mentre si riparano per non essere colpiti) e senza coralità (perché la macchina da presa filma soprattutto combattenti isolati). Quest’ultimo aspetto determina la mancanza del carattere epico di questo genere, caratterizzato tradizionalmente da grandi movimenti di massa e di gruppo, oltre che dalla presenza di una missione da compiere chiara e definita, in grado di generare atti di eroismo e forti identificazioni spettatoriali.
Invece, "I dannati" possiede una trama molto esile, in cui manca un vero e proprio obiettivo centrale che determini un movimento collettivo, mentre si preferisce dare maggiore importanza all’interiorità, ai pensieri e al vissuto individuale dei singoli soldati. Infine, Minervini sceglie di riprendere e al contempo snaturare la carrellata in avanti, una cifra stilistica tipica di questo genere: il regista pedina i soldati mentre avanzano, ma sceglie di restringere l’inquadratura sugli individui invece che sul loro rapporto con lo spazio circostante. Così facendo, la limitatezza della visione nega l’avanzata e, di conseguenza, la realizzazione dell’obiettivo militare.
La sottile opera di ripresa e contemporanea negazione di alcuni elementi di genere avviene anche, seppur in modo minore, con il western. Infatti, "I dannati" racconta di truppe che avanzano negli spazi oltre la frontiera, parla della caccia all’oro, della terra fertile e dei sogni di coltivarla per creare una famiglia. Tuttavia, la wilderness finisce con l’essere soprattutto evocata a parole piuttosto che mostrata, dato che il regista tende a eliminare l’ambiente tramite il ricorso a particolari lenti caratterizzate dalla distorsione dell’immagine alle estremità: il personaggio viene quindi ulteriormente isolato e separato forzatamente dal paesaggio che in realtà lo circonda, frustrando il legame che unisce questi due e che caratterizza il genere western. Questa scelta tecnica acuisce anche la tendenza di Minervini di mettere i vari protagonisti al centro delle immagini e della narrazione, incrementando la priorità costitutiva della relazione, tanto tra regista e attore, quanto tra personaggio e spettatore.
Concludendo, "I dannati" si inserisce perfettamente nella filmografia di Minervini, fondata interamente sul concetto di performatività: in primo luogo, il film è il risultato della collaborazione creativa fra chi partecipa alla sua realizzazione; inoltre, testimonia l’incontro e la relazione tra macchina da presa e attore nel momento del suo costituirsi; infine, per via delle scelte registiche e tecniche caratterizzanti questo ultimo lungometraggio, si approfondisce anche una terza tipologia di relazione, quella fra personaggio e spettatore filtrato dall’occhio del regista, grazie alla enfatizzata capacità di Minervini di portare i suoi attori a fornire delle interpretazioni estremamente sincere e spontanee, oltre che di immortalare l’interiorità più intima e vera dei suoi attori – comprimari - compagni di lavoro e di vita.
cast:
Jeremiah Knupp, Noah Carlson, Judah Carlson, Tim Carlson
regia:
Roberto Minervini
titolo originale:
The Damned
distribuzione:
Lucky Red
durata:
89'
produzione:
Okta Film, Pulpa Film, Rai Cinema, Michigan Films
sceneggiatura:
Roberto Minervini
fotografia:
Carlos Alfonso Corral
scenografie:
Denise Ping Lee
montaggio:
Marie-Hélène Dozo
musiche:
Carlos Alfonso Corral