Forse per parlare di certi film, di certi film la cui fama e il cui valore culturale, l'importanza e la bellezza, talvolta impediscono una corretta ed esaustiva analisi dell'opera stessa, è bene partire dalle cose semplici. Non sono tanti i film capaci di segnare un punto di non ritorno all'interno della storia del cinema, e conviene dunque iniziare descrivendo il quadro storico che ha permesso la nascita del capolavoro del 1959.
Nouvelle Vague
Ovvero la "nuova ondata" del cinema francese che "si impose all'attenzione della critica e del pubblico internazionali, determinando in larga misura i temi e le forme di gran parte della produzione cinematografica del decennio successivo"
[1]. Il termine, coniato nel 1957 dall'
Express per un'inchiesta sociologica sulla gioventù francese, finì per designare quel movimento cinematografico che, allontanandosi volontariamente dalle norme che regolavano lo "spettacolo tradizionale", utilizzò la macchina da presa come nuovo strumento per riprendere la realtà contemporanea. È infatti contro i compromessi industriali e commerciali del cinema, le strutture che impediscono la manifestazione della personalità autoriale e il linguaggio codificato delle produzioni correnti che i giovani della
Nouvelle Vague oppongono la più strenua resistenza. "Si devono filmare altre cose, con altro spirito", scrive
François Truffaut su
Arts in quello che è considerato il manifesto del movimento. "Si devono abbandonare gli studi troppo costosi. [...] Si deve girare per le strade e in veri appartamenti; anziché spargere sporcizia artificiale sulla scena, [...] si devono filmare davanti ad autentici muri sporchi delle storie più consistenti; se un giovane regista deve dirigere una scena d'amore, [...] deve ricordarsi la conversazione che ha avuto il giorno prima con la sua donna [...]".
André Bazin, Jacques Doniol-Valcroze, Pierre Kast, Alexandre Astruc;
Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Claude Chabrol, Eric Rohmer e lo stesso François Truffaut: questi gli autori di spicco che, sulle pagine dei celeberrimi
Cahiers du Cinéma, iniziano a sviluppare un discorso circa la
politique des auteurs, individuando "nell'opera dei registi da loro ammirati [...] il manifestarsi di un'autentica personalità artistica proprio attraverso quegli elementi caratteristici del loro stile che si identificano con le peculiarità di una scrittura personale". Un nucleo di personalità capaci di rivoluzionare prima i canoni interpretativi dei lungometraggi, provocando, stimolando e mettendo in discussione le precedenti convinzioni critiche; poi sovvertire le regole della regia cinematografica, passando dietro la macchina da presa e realizzando così le teorie prima solo promosse su carta. 1959-1963: questi sono considerati a grandi linee gli anni in cui nasce, si sviluppa e lentamente muore la
Nouvelle Vague, il cui termine inizia a comparire sistematicamente dopo l'uscita dei primi due lungometraggi di Chabrol, "Le Beau Serge" e "I cugini", tra febbraio e marzo del '59. Nel maggio dello stesso anno, durante il Festival di Cannes, sono presentati in concorso "I 400 colpi", "Orfeo negro" e "Hiroshima, mon amour"; l'anno successivo esce "Fino all'ultimo respiro", ed è il punto di massimo successo dell'intero movimento.
I cineasti della
Nouvelle Vague sono dunque prima di tutto cinefili, appassionati e strenui conoscitori della settima arte, "e in tal modo hanno acquisito una cultura cinematografica e una certa concezione della messa in scena fondata su scelte estetiche, opzioni morali, gusti e, più ancora, disgusti"
[2]. Ma uno dei meriti fondamentali del movimento francese risiede nell'aver affrontato "la realtà che essi conoscevano bene, indirizzando la loro analisi alla quotidianità, ai piccoli fatti di ogni giorno. [...] Di qui una sorta di immediatezza della rappresentazione, analoga allo stile di
Rossellini[...]; di qui un parlare in prima persona, una specie di confessione in pubblico, in cui i fatti privati, i ricordi, le aspirazioni diventano esperienza comune, motivo di riflessione [...]."
[3] La
Nouvelle Vague, infatti, risulta anche essere un movimento di reazione alla sordità del cinema contemporaneo nei confronti dell'attualità, dalla guerra in Algeria alla "crisi istituzionale con l'avvento al potere di Charles de Gaulle". Non è un dettaglio che i titoli di testa dei "400 colpi" ritraggono le vie parigine e terminino con una soggettiva, dall'interno di un'automobile, sulla Tour Eiffel.
François Truffaut e Antoine Doinel
François Truffaut nasce a Parigi il 6 febbraio 1932. La madre è ancora molto giovane, il giovane François viene affidato a una balia; un anno e mezzo dopo, Janine de Monferrand sposa l'architetto Roland Truffaut, il quale accetta di riconoscere il bambino e di dargli il suo cognome. I due coniugi affidano poi il piccolo alla nonna materna fino alla morte della stessa, quando François ha ancora otto anni. Il bimbo torna allora a casa dai genitori, e lì inizia per Francois un periodo estremamente problematico per quanto riguarda la vita familiare. La madre sembra nutrire sentimenti contrastanti nei suoi confronti, talvolta il figlio ha la sensazione di essere poco gradito in quell'abitazione. Inoltre, il rendimento scolastico è tutt'altro che positivo: "Sono stato bocciato agli esami di quinta elementare - racconta Truffaut - e, nei corsi superiori, la mia occupazione preferita era quella di marinare la scuola". Queste vicissitudini adolescenziali sono esattamente quelle narrate nei "400 colpi", prima tappa del percorso cinematografico lungo venti anni nella vita di Antoine Doinel. "L'autobiografia come progetto estetico: ecco l'orizzonte che delimita, individuando nello stesso tempo un primo possibile livello di lettura, il cinema di Truffaut"
[4]. Se, come abbiamo già avuto modo di descrivere, la
Nouvelle Vague è un movimento di reazione alla "verità stereotipata del cinema francese"
[5], ecco che Truffaut, raccontando se stesso attraverso il personaggio di Doinel, mette in pratica i principi teorici espressi prima solo attraverso la critica cartacea.
Antoine Doinel è François Truffaut, allora; ma Antoine Doinel non è François Truffaut. Sarebbe infatti riduttivo pensare al protagonista dei "400 colpi" quale mero
alter-ego dell'autore transalpino, in quanto Doinel è tanto simile al suo autore quanto, sotto certi aspetti, differente. In esso Truffaut inserisce particolari strettamente autobiografici ma anche elementi di pura finzione; e in fondo l'obiettivo non è quello dell'autocommiserazione o dell'autocelebrazione: Antoine è il veicolo attraverso cui Truffaut cerca di raccontare la complessità del reale. Come infatti racconta lo stesso regista: "[...] nei
Quattrocento colpi non tutto è autobiografico, anche se tutto è vero. Che quelle avventure siano state vissute da me o da altri non ha importanza, l'essenziale è che siano state vissute"
[6]. E nella creazione del personaggio-Doinel sono fondamentali almeno altre due figure. Il primo è Marcel Moussy, ex-professore e tra gli autori del programma "Si c'était vous", dove venivano analizzati proprio i conflitti tra figli e genitori. Cosceneggiatore del film, Moussy è chiamato da Truffaut proprio per infondere la sua esperienza "sul campo", evitando il rischio delle caricature e degli stereotipi. Il secondo ovviamente è Jean-Pierre Léaud, che sarebbe poi diventato il volto della
Nouvelle Vague. L'attore infonde coraggio e forza al suo Antoine, allontanandolo dalla visione più fragile del regista: il risultato è uno dei più grandi miracoli della storia del cinema, perché l'espressività e le capacità di improvvisazione di Léaud, il suo talento naturale nel stare davanti alla macchina da presa, generano un personaggio in grado di muoversi, pensare, agire come se fosse direttamente ripreso dalla vita reale.
I turbamenti dell'adolescenza
La psicologia di Antoine, anche per questo, per il suo essere cioè contradditoria e complessa come quella di una persona vera, è molto meno immediata da sviscerare di quanto si possa pensare. Nel protagonista interpretato da Léaud convivono timore e audacia, indifferenza e sensibilità. La frustrazione per la mancanza di affetto all'interno delle mura domestiche si sublima in istinti antisociali e sovversivi (marinare la scuola, rubare una macchina da scrivere, utilizzare il gesso sui muri della classe), l'iniquità dei precettori lo porta a cercare una via di fuga in tutte le situazioni, l'insicurezza a inventarsi continuamente nuove menzogne per giustificare la propria inettitudine. "Per parlare da specialista - afferma Truffaut - direi che lo svezzamento affettivo, il sopraggiungere della pubertà, il desiderio d'indipendenza e il complesso d'inferiorità sono segni caratteristici di quest'età. Basta un solo atto di ribellione e questa crisi viene giustamente chiamata
originalità giovanile [...]: e si fanno i quattrocento colpi". È bene però rilevare come grande attenzione sia posta nella definizione delle figure genitoriali: sono loro i principali responsabili della infelice condizione esistenziale del protagonista. Non è un caso che a scuola, nel tentativo di giustificarsi per il mancato svolgimento di un compito, Antoine menta al suo professore adducendo come scusa l'improvvisa morte della madre; così come non è un caso che, durante la lezione di inglese, Truffaut scelga di far ripetere al maestro, quasi come fosse un'ossessione, la domanda "Where is the father?". La rabbia nei confronti della donna porta infatti Doinel, inconsciamente, a sperare e credere nella sua dipartita, mentre l'assenza di una solida figura paterna nell'adolescente - e il desiderio taciuto di conoscere il proprio vero padre - è impossibile da dimenticare anche durante un'interrogazione scolastica.
Alla freddezza della madre, incapace di rivolgersi al ragazzo attraverso sincere manifestazioni d'amore, si contrappone la leggerezza del padre, il quale sembra spesso incapace di prendere con serietà la situazione della famiglia. Truffaut però si astiene dal giudicare con risentimento questi personaggi, ma anzi cerca di abbracciarli e comprenderli, evidenziando la sofferenza a cui anch'essi sono sottoposti. Soprattutto della donna - sia per il ruolo fondamentale che ricopre nella crescita del bambino, sia per il fatto di essere, al contrario dell'uomo, reale genitore biologico di Antoine - si avverte la presenza per tutta la durata dei "400 colpi", anche quando non presente fisicamente in scena. La bellezza e l'autonomia che la contraddistinguono sono fonte di grande turbamento nel ragazzo, motivo di fascino e di biasimo. Quando Antoine la scopre in compagnia di un'amante, il semplice sguardo di Léaud basta a farci intuire tutti i sentimenti contrastanti che il protagonista prova per lei. La delusione per una simile situazione, infatti, viene abilmente nascosta da Antoine, manifestando un disinteresse (provato dal fatto che nemmeno ne parla con la madre), che riusciamo benissimo a cogliere come fittizio e autoimposto. Antoine ama sua madre; e vorrebbe essere amato da lei. Lei vuole bene ad Antoine, si preoccupa nel momento in cui scopre della bugia raccontata sul suo conto. Eppure, a causa di una natura nevrotica accentuata dalle circostanze sfavorevoli, la donna non riesce a dimostrargli affetto: questo genera instabilità emotiva nel ragazzo. D'altronde, si potrebbe insinuare come il "fare i quattrocento colpi" (corrispondente al nostro "fare il diavolo a quattro") di Doinel sia un tentativo disperato di richiamare l'attenzione dei genitori su di sé. L'unico in grado di fornirgli un valido supporto emotivo è l'amico Renée, il compagno delle sue avventure e delle sue mattine lontane dalla scuola, disposto ad aiutarlo pure nei momenti più difficili.
Sui "400 colpi" è importante sottolineare l'influenza esercitata - a detta dello stesso Truffaut - da "Zero in condotta" di Vigo e "Germania anno zero" di Rossellini, entrambi film incentrati sul mondo infantile e dove, soprattutto, i ragazzi sono il vero centro del film, non supporto all'attore adulto di turno. Tutto il racconto si dipana attraverso il punto di vista di Antoine, in una narrazione alla ricerca di una prossima oggettività, di un'"apparenza documentaristica [...] (raramente la macchina da presa si sostituisce al protagonista e
vede con i suoi occhi)"
[7]. L'unica eccezione è data dalla celebre sequenza in cui Doinel, dall'interno del cellulare che lo trasporta al commissariato, osserva malinconicamente la sua città mentre viene abbandonata. È questa una delle scene-chiave dell'opera, e non a caso enfatizzata dalle splendide musiche di Jean Constantin: il dolore di Antoine raggiunge qui il proprio culmine, lasciando trasparire, attraverso una lacrima che riga il suo viso, tutta la tristezza fino ad allora solo nascosta, o appena accennata. Allo stesso modo importantissima, per la comprensione del carattere di Doinel e delle sue difficoltà adolescenziali, è la scena dell'interrogatorio, un lungo piano-sequenza verso l'epilogo del film. Nessun controcampo, solo un primo piano di Lèaud, il suo viso e le sue mani. Qualche domanda, esitazioni, timidezza. "Se dicevo la verità non mi credevano, così dicevo altre cose", confessa a un certo punto Antoine. Il mondo degli adulti e quello dei ragazzi nemmeno sembrano parlare la medesima lingua, incapaci di comprendersi l'un l'altro.
La distanza tra il mondo degli educatori e quello degli educandi, o in altre parole quella tra vecchi e giovani, è in fondo la stessa che separa la tradizione del cinema francese e la
Nouvelle Vague. Ed esattamente come Truffaut si ribella alle norme imposte da quel modo di girare e intendere il lungometraggio, allo stesso modo Doinel si ribella ai dettami attraverso cui i precettori tentano di educarlo. È dunque la libertà che accomuna Antoine, Truffaut e la
Nouvelle Vague, come d'altronde lo stesso autore rivela: "I film dei giovani registi somigliano in modo straordinario a chi li realizza perché sono girati in piena libertà. Ed è questo il solo punto che li accomuna: la libertà". Questo rapporto conflittuale tra le due generazioni francesi, che come abbiamo visto si trova tanto nella realtà storica che in quella fittizia del film, è ben esemplificata dall'esclamazione del professore di Antoine: "Povera Francia, che futuro le si prepara!".
Una filmografia all'insegna dell'autobiografismo
La critica alle istituzioni rappresenta una delle costanti della filmografia truffautiana tutta, basti pensare a "Fahrenheit 451" o "Il ragazzo selvaggio", ma è nei "Quattrocento colpi" che questo tema viene affrontato più direttamente. Ed è interessante imbastire un confronto tra la pellicola del '59 e quella del '69: "Il ragazzo selvaggio", infatti, sembra dialogare a distanza proprio con il lungometraggio d'esordio dell'autore. Nel film del '59, non a caso dedicato a Jean-Pierre Léaud, il ruolo del precettore è interpretato dallo stesso Truffaut. Egli, professore in un istituto per sordomuti, scopre un ragazzo di circa la stessa età dell'Antoine dei "Quattrocento colpi" cresciuto in una foresta, senza alcuna conoscenza del linguaggio e della cultura umana, e decide di ospitarlo per istruirlo. I suoi metodi non sempre sono ortodossi, eppure nella figura di questo dottore è possibile notare un genuino affetto per il ragazzo - come se Truffaut immettesse nel suo personaggio quell'amore che in gioventù non hanno purtroppo ricevuto Antoine, il selvaggio e il regista medesimo - in un rapporto padre-figlio che, forse, riproduce anche quello tra Truffaut e Léaud.
Impossibile poi non soffermarsi sul ciclo di pellicole dedicato ad Antoine Doinel: un caso più unico che raro di simbiosi tra realtà e finzione cinematografica. Doinel nei film che lo vedono protagonista cresce di pari passo con il suo attore Jean-Pierre Léaud, in ogni opera lo troviamo in una fase diversa della propria esistenza. L'infanzia problematica nei "400 colpi", i primi amori adolescenziali in "Antoine e Colette", il ritorno dopo l'esperienza militare e le seguenti esperienze picaresche in "Baci rubati", il matrimonio e la sua crisi in "Non drammatizziamo... è solo questione di corna", gli anni della maturità e la nostalgia in "L'amore fugge": ogni film è un frammento della vita di Doinel, un tassello nel prezioso mosaico della sua crescita. Le opere appartenenti a questo ciclo sono fitte di rimandi e relazioni inter-testuali, si intersecano e compenetrano tra di loro e descrivono le vicissitudini - soprattutto amorose, infatti predomina il registro "più leggero" della commedia romantica - di questo personaggio. Al loro interno l'autore inserisce tutti i temi a lui cari: la passione per la letteratura, i triangoli amorosi, l'amore per il cinema e per le immagini.
D'altronde Truffaut continua a proiettare nel personaggio interpretato da Léaud diversi elementi autobiografici, seppur decisamente meno rispetto all'esordio dei "400 colpi". Antoine cambia con il passare del tempo, diventa progressivamente un uomo dotato di una propria personalità e di una propria intelligenza, alla fine riesce anche a realizzarsi in qualità di scrittore. È diverso il Doinel dei "400 colpi" rispetto a quello di "L'amore fugge", ma in fondo è sempre uguale: stesso fare burbero, stessa scaltrezza e stesso problema con le figure femminili ("In definitiva Antoine non è mai diventato veramente adulto: egli paga ancora il rapporto fallimentare con la madre [...]"
[8]). "L'amore fugge" è un film sui ricordi, soprattutto delle donne amate; e Truffaut riprende sequenze dei film precedenti immettendole in questa opera sotto forma di
flashback. Rivediamo tutti gli Antoine Doinel che abbiamo conosciuto e a cui ci siamo affezionati; rivediamo l'Antoine dei "400 colpi", ancora così giovane; ci ricordiamo della sua espressione all'interno di una giostra, in una scena che è perfetta allegoria dell'irrequietezza e della vitalità adolescenziali. E ripensiamo, inevitabilmente, a quel finale, quel finale tra i più famosi e belli della storia del cinema. Durante una partita di pallone nell'istituto di correzione per giovani delinquenti, Antoine riesce a scappare. Corre, Antoine, corre e raggiunge una spiaggia deserta. Finalmente può vedere per la prima volta con i propri occhi il mare, assaporare il profumo della libertà che esso porta in grembo. Antoine rallenta, percorre tutto il bagnasciuga e mette i piedi nell'acqua. Ma qui comprende come neppure il mare possa garantirgli la libertà tanto agognata, la felicità, la salvezza. Si volta allora turbato, tornando sui suoi passi. Il suo sguardo è inquieto, smarrito. "E ora, cosa ne sarà di me?" sembra domandarsi. La macchina da presa si avvicina al protagonista,
stop-frame prolungato sul suo volto. Antoine scruta l'orizzonte ma è come guardasse direttamente in camera, chiedendo disperatamente aiuto allo spettatore. Antoine però è solo, solo e in balìa del proprio destino. Nessuno può aiutarlo. Non c'è risposta alla sua domanda. L'angoscia dell'adolescenza si fissa per sempre in quest'immagine, un'immagine di tristezza e infelicità. Fine.