"Ma è peggio la calma: cala l'adrenalina e la tua mente comincia a vagare."
Quello di Michael Bay è il "cinema del movimento". E' palese. Solo ciò che è in movimento, nei film del regista californiano, è positivo e degno di considerazione. Che si tratti della macchina da presa, di sovente a mano, sempre in moto (in questo film meno vorticosa del solito, per ovvie ragioni) oppure gli eroici
contractors sempre pronti all'azione e in continua fibrillazione questo è il caposaldo del cosiddetto "bayhem", ancor più di quanto lo sono gli onnipresenti effetti digitali (qui giocoforza ridotti anch'essi) e le proverbiali esplosioni. Questo permette a Bay di sviluppare nel film in questione una vera e propria decostruzione dell'
immobilità, che poi è assimilata alla riflessione e a qualsiasi cosa sottragga dall'azione pura. Emblematiche sono quindi le sequenze che vedono contrapporsi il capo della guardia della base USA segreta "Rone" e il comandante strategico della stessa, nel cui attendismo (ovvero il rispetto dei protocolli e delle altre forze in gioco) viene rintracciata la causa delle perdite avvenute successivamente. Non ha importanza il fatto che questa ricostruzione degli avvenimenti sia stata giudicata mistificatoria dalla maggior parte dei diretti, reali, interessati.
Questo esemplifica ancora una volta in maniera eccellente l'approccio di Bay alla materia storica, pur quand'è molto recente, e ne sottolinea l'attitudine (non così rara nel cinema postmodernista, bisogna dire) allo snaturamento di quella e la sua mutazione in puro
gioco visivo. Nulla di deprecabile di per sé ma che finisce per entrare in contrasto col supposto realismo per il quale Bay opta nella messa in scena. Infatti "13 Hours" è probabilmente considerabile il più "realistico" fra i film del regista di "Transformers", in virtù di un uso controllato degli effetti digitali (se si esclude la sontuosamente farlocca fotografia di Dion Beebe) e di una tendenza all'esibizione quasi iperrealistica di sangue, ferite e, ovviamente, turpiloquio vario. Ma sia ben chiaro che questa è solo una patina e che Bay ne è ben consapevole: pur non ripetendo la superficiale e fastidiosa (oltre che kitsch) parvenza di "Pearl Harbor", il regista ripropone la sua visione glamour, enfatica e manichea del mondo (o perlomeno del cinema), nella quale i SEAL (o comunque i membri delle forze speciali) sono eroi senza macchia e senza paura ma anche molto "umani", le donne o sono di bell'aspetto o praticamente inesistenti per la mdp, gli scontri a fuoco un festival delle luci e i nemici delle entità indefinite senza volto e (soprattutto) senza voce.
Di conseguenza non è per nulla sorprendente che il film converga in un'apologia senza mezze misure degli "eroici sei che fecero la cosa giusta", come sentenzia tronfia la tagline. Senza tirare in ballo il retorico finale (l'unico possibile, sia ben chiaro) che sottolinea didascalicamente questo concetto, il film esplicita ciò in ogni suo fotogramma, ponendo i sei protagonisti il più possibile al centro della vicenda e degnando solo loro di un background che non si limiti al numero di missioni svolte e di un qualche approfondimento psicologico, naturalmente di maniera. Pertanto si possono disporre i personaggi della vicenda in una sorta di piramide che vede i supereroistici
contractors in cima, a seguire tutti i personaggi che ne subiscono il fascino e li adottano, indipendentemente dal ruolo e dalle caratterizzazione precedenti, come unici modelli validi (si citano la bella ma non troppo diplomatica franco-statunitense e l'interprete locale Amal), poi coloro che, pur facendo parte dei "buoni" (termine abusato in maniera quasi parodica nel corso della pellicola), si atteggiano in modo troppo differente dai protagonisti per essere visti sotto una luce positiva (la categoria che comprende quasi tutti i personaggi presenti) e infine i nemici, o meglio "i cattivi", ovvero la maggior parte della popolazione libica, privata non solo di una spiegazione per le proprie azioni (se non quella ontologica) ma pure di una qualsiasi umanità (se si esclude, in parte, il prefinale), venendo mostrata o come viscidamente (e stupidamente) servile o come massa furiosa e irrazionale dall'aspetto zombesco.
Tale caratterizzazione del nemico come malvagio e ostile per sua natura conferma "13 Hours" all'interno del cinema di Bay e contribuisce a ciò che sta a cuore al regista e all'autore del discutibile e discontinuo
script Chuck Hogan, ovvero l'esaltazione dei "
secret soldiers" e del modello di uomo americano che rappresentano. Modello a cui si oppone, più che il fanatico islamista privo di ogni profondità, colui che evita l'azione e non prende di petto gli avvenimenti, sia esso un diplomatico o un politico. Ha per l'appunto fatto molto discutere la piuttosto esplicita accusa di aver abbandonato i concittadini nella base che il film porta avanti e che sarebbe indirizzata principalmente all'allora Segretario di Stato Hillary Clinton, che tutti sappiamo essere la più papabile candidata democratica alla Casa Bianca. Per chi scrive si tratta di una sterile polemica che, oltre ad aver ben poco a che fare con il cinema, sovrainterpreta la critica di Bay: essa non è rivolta, almeno direttamente, ad un preciso leader politico ma ad una intera categoria, o meglio tipo, di individui, ovvero tutti coloro che non corrispondono all'energico e muscolare ideale al quale guarda l'autore. Emblematica è allora la ripetizione dell'aforisma dello storico delle religioni Joseph Campbell ("tutti i tuoi inferni, tutti i tuoi paradisi, sono dentro di te") che, grazie anche alle struggenti preghiere di
homecoming degli eroi (e al dialogo finale con Amal), si configura come l'unico, concreto, messaggio politico contenuto in "13 Hours": i veri americani (ma si potrebbe pure dire "uomini", "eroi", etc..) dovrebbero difendere il proprio paese, la propria gente, la propria famiglia, non fare i "poliziotti del mondo". Concetto che riconduce il "cinema del movimento" di Bay a quel pensiero tipicamente nordamericano, da noi europei soventemente interpretato come reazionario e populista, che pone l'azione e il
sangue come valori assoluti a cui tutto è riconducibile e va ricondotto. Lui ne è ben consapevole. Noi (specialmente i critici) dovremmo fare altrettanto.