Hold it too slow
Dog bite
On my leg
Not Right
Suppose to beg
Dog Bite di Dead Kennedys
La green room, sala degli artisti in attesa della performance, è luogo di un omicidio e il centro nevralgico di un assedio. Jeremy Saulnier parte da quest’idea a cui sottrae quanti più elementi sovrastrutturali per conferire a "Green Room" l’aspetto di una deflagrazione lenta, spasmodica e inattesa.
Inserito nella cornice di un asfissiante bosco lontano dai centri urbani, prefigurato dalla rappresentazione in apertura di film di un mezzo di trasporto deragliato in un campo verde osservato da un punto di vista pendente e dunque premonitorio di pericolo, l’edificio adibito a live bar per musicisti underground si trasforma in un terreno di scontro tra il gruppo hardcore degli Ain’t Right e un gruppo di skinhead.
Sorprendente come Saulnier restituisca la dimensione sporca ed energica della scena musicale facendola veicolo di una condizione di tensione e soltanto apparentemente realistica. La fotografia, bagnata di verde in post-produzione da Sean Porter, oscura gli interni e gli esterni catturando le flebili fonti di luce per esaltare le tonalità cupe. In questa atmosfera decadente e vibrante, le contorsioni thriller sepolte tra poche mura iniziano a trasformarsi, contaminate da accenni gore. Saulnier lascia che la violenza sia calcolata, evitando l'accumulo e favorendone piuttosto la vistosità e l’aspetto, stavolta sì, realistico: esplosiva in questo senso la vista di un arto semi-mozzato che entra in campo inaspettatamente.
Da questo evento, Saulnier compone una spirale di violenza finalizzata alla deriva western della seconda parte: un home invasion alla rovescia (i tentativi delle vittime di uscire dal loro luogo di difesa attorniato dagi naziskin) che si tramuta in un "Distretto 13" furibondo e aggressivo in cui sono le vittime a reagire agli assedianti. La vistosità della violenza diviene una caratteristica per descrivere le finalità di salvaguardia di sé stessi, a ogni costo.
"Green Room" si contraddistingue all'interno del genere per una millimetrica scelta delle inquadrature e degli elementi di scrittura, volti a descrivere ogni elemento che accumuli tensione. Saulnier dilaziona attentamente la varietà delle situazioni di scontro e le sfide psicologiche tra i soggetti, eccitando le possibilità di risoluzione, ogni volta rinnovate dalla capacità di seminare indizi nella scenografia e nei dialoghi (fucili nascosti, numero delle cartucce) in modo da spiegare sistematicamente ogni tragedia. In questa quadratura dell’azione-tensione, il modo di girare di Saulnier ricorda Walter Hill per freddezza e gravità di ogni singolo gesto all’interno di un perimetro definito e ingabbiante (si pensi a "I guerrieri della notte", già omaggiati da un personaggio di "Murder Party").
"Green Room" gira vorticosamente nei limitati interni a disposizione valorizzando i limiti degli stessi e del loro progressivo aprirsi centrifugo (stanze nascoste, perimetro esterno, bosco) ed evitando gimmick situazionali che solitamente sono variazioni sul tema prescelto (si pensi a "Saw" in cui lo schema ripetuto è sì variegato, ma sempre simile all'idea di partenza).
Si potrebbe erroneamente credere che la scelta di "Green Room" di rendere degli skinhead aggressivi e antagonisti sia un elemento di scrittura arido e semplicistico. In realtà Saulnier, anche sceneggiatore, ironizza persino sui suoi protagonisti: punk nichilisti, simpatizzanti del do it yourself e scioccamente naif (aborrono il progresso tecnologico, urlato dalla eloquente track "Toxic Evolution") che sfidano il pubblico con le note di "Nazi punks fuck off" dei Dead Kennedys ma che rivelano i loro guilty pleasure musicali pop. Uno scontro dichiaratamente ironico, sottolineato dalla riottosità punk del gruppo il cui nome antisistemico, Ain’t Right, viene ridicolizzato e formalizzato in Aren’t Right (letteralmente entrambe le forme si traducono con "non è giusto" ma la seconda, al plurale, è rivolta ai membri della band per scherno).
Determinata la monodimensionalità dei villains dallo autore stesso in maniera apodittica, data la loro natura criminale, la deflagrazione tra le due subculture della scena musicale punk, di cui lo stesso Saulnier era frequentatore come musicista, è indirizzata anche far emergere le problematiche sociali di una periferia criminale afflitta da gruppi paramilitari estremisti e dannosi. Tuttavia sono boccate d’ossigeno in una marea di segni che emergono tra i flutti del genere, relegati a evanescenti riflessioni sullo sfondo il cui unico commento è il punto di vista dell'autore sospeso tra costruzione della tensione e dilatazione del tempi: si pensi al montaggio finale, col sottofondo del programma "La colazione dei campioni", o ancora alle due scene simboliche quali la traversata in bicicletta dell’introduzione e il tragitto del cane in semi-soggettiva (immagine ad esempio di seguito), scene quasi protesiche rispetto al resto del film concentrato unicamente sulle modalità tipiche dello slasher.
"Green Room", con "Murder Party" e "Blue Ruin", chiude un’ideale trilogia del fallimento, clusterfuck trilogy come si diverte a definirla Jeremy Saulnier stesso, titolo che mostra ancora una volta quanto le prospettive di genere siano sferzanti senza per forza ascrivere loro un sottile messaggio morale di sottofondo, lasciando l’intrattenimento e la ferocia in balia dell’ironia in primo piano.
cast:
Anton Yelchin, Imogen Poots, Alia Shawkat, Joe Cole, Callum Turner, Patrick Stewart, Macon Blair, Mark Webber, Samuel Summer
regia:
Jeremy Saulnier
distribuzione:
Eagle Pictures
durata:
95'
produzione:
Broad Green Pictures, Film Science
sceneggiatura:
Jeremy Saulnier
fotografia:
Sean Porter
scenografie:
Ryan Warren Smith
montaggio:
Julia Bloch
musiche:
Brooke Blair, Will Blair