Nicola (Riccardo Scamarcio) è un giovante poliziotto appassionato di teatro. Immigrato dalla Puglia e consapevole della sua bella presenza e degli occhioni azzurro-cielo, coltiva il sogno di poter dismettere la divisa e il "posto sicuro" per calcare il palcoscenico. Se non dimentichiamo che il 1969 è, oltre tutto il resto, un anno di drammatica recessione economica, già ci scappa il primo messaggio: se sei Riccardo Scamarcio i tuoi sogni diverranno realtà!
O anche se sei Michele Placido: tutta questa parte del film rievoca pari pari la sua biografia, giovane e ambizioso celerino che da Ascoli Satriano (Foggia) arriva a Roma e incoccia Mario Monicelli che lo porta sul grande schermo insieme a Ornella Muti e Ugo Tognazzi ("Romanzo popolare", 1974).
Certo, le analogie si fermano qua: Placido è un carattere sanguigno, consapevole dei propri mezzi compreso un fascino mediterraneo che gli avrà scaldato molte volte il letto, alimentato l'ego e la fiducia in se stesso e, perché no, potrebbe anche averlo aiutato nella carriera. Scamarcio, al contrario, è pienamente conforme a un eroe dei nostri giorni: dubbioso, riservato, passivo. Quando, all'inizio del film, lo vediamo (e sentiamo) all'adunata dei celerini che risponde cazzuto al cazzuto interrogatorio del suo superiore, pensiamo a "Full Metal Jacket" (Stanley Kubrick, 1987) e quei dieci minuti di grande cinema nei quali il sergente Hartman (Lee Ermey) fa capire di che pasta devono essere fatti i marines.
Il confronto non regge e la citazione ci sembra fuori luogo.
Più convincente, al contrario, è il candore di Nicola davanti alla commissione teatrale che scatena l'istinto materno di Maddalena (una splendida Laura Morante) che lo seduce.
Nicola, nella doppia identità poliziotto/attore entra così in contatto col fermento socio-culturale di quell'anno: s'innamora di Laura (una convincente Jasmine Trinca che Placido ha convinto anche a una scena di nudo frontale), figlia contestatrice della medio borghesia cattolica e prende le misure di Libero (un buon Luca Argentero, forse un po' sacrificato) operaio della Fiat e leader carismatico nonostante il suo larghissimo e bianchissimo sorriso a 32 denti.
Un triangolo, insomma, che certamente attirerà molte invidie delle cine-spettatrici.
Placido ha voluto subito chiarire: non è un film a tesi né un amarcord; piuttosto, "Il grande sogno" è una sorta di diario che quasi casualmente si situa in quell'anno cruciale.
Gli inserti di tre episodi emblematici di quei giorni (la contestazione al presidente Nixon, in visita a Roma; la morte di Che Guevara e le lotte contadine in Sicilia) sono giustapposti nel fluire del film, forse utili a contestualizzarlo ma assolutamente gratuiti.
Come un diario, anche la fotografia segue i codici del ricordo sbiadito, del sogno: sottoesposta, spesso al limite della leggibilità, "sporca" in special modo nel rosso che, giocoforza, è il colore più connotativo.
La regia è (volutamente?) piatta: come nel sogno, impazzano i piani medi, quelli cioé che hanno un punto di vista oggettivo ma non tanto; la cinepresa si muove poco e il movimento è affidato al montaggio a stacco che di solito salda due piano medi e, più raramente, un primo piano degli attori.
Insomma, quella che si chiama "regia televisiva", che punta decisamente sulla trama, sul racconto e la parola.
In sintesi, il film non decolla e, a tratti, disturba.
Disturba che il 68 sia ormai da tempo l'ennesima occasione per l'agiografia, l'èlite che incensa se stessa.
Sarà probabilmente la coda di paglia ma le tre ultime generazioni (a partire dagli anni 80) nutrono la medesima percezione di sentirsi sul banco degli imputati per non essere stati (e non esserlo anche oggi) protagonisti di un mondo sempre più cinico e anestetizzato. Personalmente non ho mai visto un bel film sull'argomento (e neanche ho mai visto un bel film di fantascienza, ma questo è un altro discorso).
Disturba un poco anche la figura di Michele Placido: indubbiamente ha il grande merito di mettere insieme ottimi cast (vedi anche e soprattutto "Romanzo criminale") e di saperli gestire. Sorvoliamo pure sul nepotismo: la figlia Violante che ha diretto in "Ovunque sei" (2004) e adesso anche Brenno (che abbiamo già visto nella serie televisiva "Tutti pazzi per amore") che nel film è Giulio, il fratello di Laura.
Quello che non funziona, di Placido, è il suo ruolo di intellettuale che offre il destro ad alcuni politici che mettono in discussione l'intera industria cinematografica italiana prendendo come pezza d'appoggio quei due, tre personaggi che fanno del cinema uno strumento di militanza.
Perché Placido gioca a fare l'intellettuale?
Potrebbe farne tranquillamente a meno, anche solo per evitare figuracce come quella durante la conferenza stampa a Venezia in cui ha seppellito d'ingiurie una giornalista spagnola solo perché questa aveva osato chiedergli dei soldi della Medusa, quindi di Berlusconi. Placido si è infiammato, ha tirato in ballo l'imperialismo e il becerume guerrafondaio (?) della destra mondiale, compresa la povera giornalista che Placido aveva capito essere inglese. Quando si è chiarito l'equivoco, Placido ha rincarato la dose: "Ah, spagnola... peggio ancora!".
Insomma: ci vuole coraggio. E intelligenza. Se Placido è orgoglioso del suo avo Crocco, deve anche ricordare che i briganti furono anti-italiani e devoti al Papa; è quantomeno superficiale ricordarli come eroi romantici...
Per qusto motivo, fatta salva l'ottima prova degli attori (un sette e mezzo complessivo), il film è del tutto insoddisfacente.
cast:
Luca Argentero (Libero), Laura Morante (Maddalena), Jasmine Trinca (Laura), Riccardo Scamarcio (Nicola)
regia:
Michele Placido
titolo originale:
Il grande sogno
distribuzione:
Medusa
durata:
101'
produzione:
Tao Film - Babe Film - Medusa - Sky Cinema
sceneggiatura:
Doriana Leondeff - Angelo Pasquini - Michele Placido
fotografia:
Arnaldo Catinari
scenografie:
Francesco Frigeri
montaggio:
Consuelo Catucci
costumi:
Claudio Cordaro
musiche:
Nicola Piovani