Nella sala del "Grande Cinema Fu-Ho" trasfigurato dal regista Tsai ("Vive l'amour", "The Hole", "Che ora è laggiu?", "
Il gusto dell'anguria") in un non-luogo metaforico e minaccioso -rudere, rovina di un'antica civiltà di celluloide- nel suo ultimo giorno di attività viene proiettato "Dragon (Gate) Inn" di King Hu. Nelle stanze spettrali di questo cinema oramai ridotto ad un relitto fatiscente echeggiano le ombre del glorioso cinema degli anni passati: film di aperture ed ampii spazii aperti come il "Dragon" di Hu che scorre sullo schermo, un
wuxia frenetico di lotte ed intrighi. Ma è questo un cinema di cui non rimane altro che la presenza fantasmatica tanto quanto quella degli spettatori che si aggirano per la sala o che si muovono per i corridoi umidi tra gli spazii chiusi, stretti, angusti. Nel cunicolare e frammentato labirinto -nel quale ci perdiamo senza possibilità di trovare una logica continuità spaziale- gli spettri del grande cinema degli anni passati vagano insieme agli spettri del cinema contemporaneo: spettatori smarriti in uno spettacolo sbagliato.
Tutti soli e distanti l'uno dall'altro come se uno schermo invisibile li separasse, ma comunque insieme nel grande recipiente del cinema; proiettati alla ricerca di un contatto sembrano inseguirsi come la bigliettaia ed il proiezionista, destinati a rincorrersi senza mai trovarsi quasi fossero vittime di un arcano maleficio. Nell'era in cui la tecnologia dovrebbe facilitare le connessioni tra gli uomini in realtà questi si trovano sempre più separati l'un l'altro e ciascuno dal mondo nel suo complesso. È una ballata di solitudini condivise questo "Goodbye Dragon Inn". Allora, la condizione dello spettatore cinematografico diviene metafora dell'umanità tutta quando le presenze che animano lo schermo acquistano vita e le immagini sembrano diventare letteralmente incarnazioni viventi e pulsanti in sangue ed ossa, vivi d'una vita che sembra più concreta di quella dei vicini di seduta, viaggiatori e compagni in questa solitaria traversata nell'immaginario tra infinite apocalissi di celluloide, tra mondi che collassando si trascinano dietro schiere di fantasmi. Quel che resta è forse solo voyeurismo.
La solitudine non si esplica solo con un senso di vuoto spaziale, ma anche temporale e se il cinema è nella sua essenza
kinesis, un movimento e una dinamica che vengono annullati dal regista Tsai, quello di "Goodbye Dragon Inn" è un non-cinema; una visione statica ed
ek-statica senza tempo che non scorre e non si sviluppa. È, in questo senso, visione pura e sempre-presente che non si sottomente alle logiche del divenire, ma si staglia con la potenza dell'identico. La cinepresa del regista malese cattura impercettibili vibrazioni emotive che riconsegna allo spettatore vestite d'un aura allucinatoria impossibile da scrollarsi di dosso. La camera si muove lenta, lentissima o forse non si muove affatto. Nulla accade e nulla viene detto (per inciso va sottolineato che nel corso del film ci sono due soli dialoghi, il più lungo non supera il minuto). Il nulla, il niente, la negazione sembrano, ora, la più propria essenza del cinema stesso che tras-figura l'esistenza umana nei frammenti che la cinepresa riesce a cogliere: nostalgia, desiderio, solitudine sono i tuoni che rompono il silenzio e si mescolano alla colonna sonora che, rubata da un vecchio film, continua malinconica a risuonare ancora ed ancora.
Con un senso di pathos ed ironia quasi palpabili, ma accompagnati dalla squisita capacità di riuscire a non sfociare mai apertamente nel dramma o nel comico si libra con inafferrabile potenza la poetica cinematografica di Tsai tra le geniali intuizioni che il regista riesce a riversare sulla pellicola. Partendo da una riflessione sulla dimensione spaziotemporale del cinema Tsai orchestra con i lenti, quasi impercettibili, movimenti della sua cinepresa una strutturata e indimenticabile metafora della condizione dell'essere umano regalandoci un cinema fantasmatico ed irripetibile. Una visione che è pura estasi.