Alle dinamiche narrative e stilistiche del cinema del reale siamo ormai relativamente abituati, tanto che un prodotto come "Gigi la legge", che rispetto a quelle dinamiche compie un passo ulteriore, rischia di passare inosservato.
O almeno, il rischio sembrerebbe non esserci, in questo caso, considerata la dirompenza di un personaggio che davvero si mangia lo schermo con la sua verve e la sua spontaneità, pur se impersonato da un attore non professionista, che di fatto recita la parte di se stesso. Eppure, limitarsi ad apprezzare "Gigi la legge" per l'efficacia scenica e la simpatia travolgente del suo protagonista o per le sue avventure quasi donchisciottesche sarebbe invero riduttivo.
Gigi è un vigile urbano di San Michele al Tagliamento, cittadina veneta al confine con il Friuli Venezia-Giulia (e infatti vi si parla già friulano). Undicimila abitanti, oltre 100 chilometri quadrati di superficie e una serie di frazioni da girare con l’auto di ordinanza.
Ma Gigi - al secolo Pier Luigi Mecchia - è anche lo zio del regista Alessandro Comodin, ed è effettivamente un vigile.
Il film è costituito essenzialmente dalla cronaca (romanzata) di alcune sue giornate lavorative e delle varie vicissitudini che in esse si susseguono. Da quelle più banali, i controlli di residenza o le segnalazioni dei vicini per veri o presunti falò di sterpaglie. A quelle più tragiche e travagliate, come il ritrovamento di un cadavere sulla ferrovia, che darà il là a un'indagine semiseria condotta in autonomia dallo stesso protagonista per tentare di far luce su una serie di suicidi, breve parentesi drammatica in un'opera che per il resto è saldamente ancorata ai binari della commedia.
Gigi rappresenta "la legge", come suggerisce il titolo, ma in realtà è un personaggio oltremodo sfaccettato nella sua genuinità e ben più variegato di quanto possa far immaginare un così severo appellativo. È un personaggio che con la sua sola presenza conferisce alle proprie peregrinazioni un tono surreale e picaresco.
Niente di straordinario, fino a qui, inclusa la commistione tra finzione e realtà, sempre sfumata, che accompagna questo genere di opere che di tale ambiguità fanno la propria cifra stilistica. Un po' alla Minervini, per intenderci, ma senza il respiro esotico impresso dal regista marchigiano ai suoi film ambientati negli States. Un po' alla Carpignano, ma senza quello spiccato taglio drammaturgico che caratterizza l’autore italoamericano. Un po’ alla Frammartino, con il quale Comodin sembrava condividere, quanto meno nei primi due lungometraggi (ma un po’ meno con quest’ultimo), alcuni tratti caratteristici, tra cui una certa "sensibilità bucolica", di taglio emotivo ed emozionale ne "L’estate di Giacomo" e invece spirituale e onirica ne "I tempi felici verranno presto".
La cifra di "Gigi la legge", piuttosto, è quella del folklore individuale, è quella dell’ironia velata con cui si mettono in scena più o meno banali vicende di tutti i giorni secondo le modalità narrative proprie del poliziesco, di cui il film finisce per diventare quasi una parodia.
In tale contesto, che gioca sulla metodicità dell'ordinario, straordinario è il modo con cui il regista attua la messa in scena, mediante un uso ingegnoso dei più semplici elementi della grammatica cinematografica.
Fin dalla prima sequenza, girata in long take con quadro fisso, il regista ci propone quello che sarà uno dei leitmotiv stilistici della pellicola: l’utilizzo creativo del fuori campo. Gigi si trova nel rigogliosissimo giardino della sua abitazione (uno dei più evidenti agganci con le opere precedenti di Comodin) e inizia a discutere con il vicino di casa che da tempo - e ancora una volta - gli chiede di tagliare quelle piante che sconfinano nella sua proprietà. Il vicino non appare mai, e lo stesso Gigi sembra non riuscire a identificarne la posizione in maniera precisa, rivolgendosi vago verso l’oscurità. La discussione procede seguendo un climax che porta a una inevitabile degenerazione verbale, che sfocia nella lite. Una scena semplice ma impeccabile, per ritmo e per scrittura, con uno schema - quello dell’utilizzo creativo del fuori campo, appunto - che si ripeterà in seguito in svariate occasioni.
Ad esempio, quelle in cui Gigi dialoga a distanza, con la sua voce melodica e cantilenante, usando la ricetrasmittente dell’auto di ordinanza, con la centrale di polizia municipale e in particolare con la nuova collega Paola, con la quale inizierà un flirt radiofonico d’altri tempi, in cui il massimo dell’ardimento si raggiungerà parlando degli ingredienti di un poetico risotto a base di vento, fiori e farfalle che costituirà il pretesto per un invito a cena. Un flirt fatto di non detti e di silenzi, di scariche elettrostatiche e di attese tra un messaggio e la sua risposta.
Il fuori campo del flirt con la collega Paola, dunque; quello della sequenza iniziale nel giardino; e ancora quello del cadavere ritrovato sui binari: momenti così vicini, da un punto di vista tecnico-stilistico, eppure così concettualmente agli antipodi.
E poi - altro strumento basilare della grammatica cinematografica, ma usato in maniera originale - c’è il classico campo controcampo, che Comodin utilizza sia per introdurre ellissi temporali, sia per fuorviare lo spettatore in funzione narrativa.
Verso la fine del film troviamo Gigi per la prima volta seduto sul sedile passeggero dell’auto di ordinanza; dalla voce (ancora una volta un fuori campo) intuiamo come alla guida ci sia la collega Paola, il cui controcampo viene inizialmente negato, à la Godard, ma in realtà è soltanto ritardato. Successivamente lo spettatore scoprirà dal sonoro (ancora una volta il fuori campo) la presenza di una terza persona all’interno dell’auto.
È la scena che prelude al momento più autenticamente toccante della pellicola, quello in cui Gigi racconta a Paola, emozionandosi, un episodio della sua carriera analogo a quello appena vissuto, con Paola che risponde silenziosa accarezzando il braccio del collega, piccolo grande gesto di conforto e complicità.
Un momento nel quale Comodin non interferisce in alcun modo. Un momento nel quale la regia si annulla, limitandosi a uno sguardo oggettivo, camera fissa e piano medio.
Salvo poi tornare a incidere nella sequenza conclusiva: ancora una volta un controcampo negato, questa volta sul protagonista e sulle sue emozioni, mentre Paola canticchia "Amore disperato" di Nada. Un finale volutamente aperto in cui il regista ci fa mancare un elemento fondamentale, appunto lo sguardo sul protagonista, facendo finire nel fuori campo, questa volta, le emozioni che Gigi sta provando, lasciandole alla libera interpretazione dello spettatore.
cast:
Pierluigi Mecchia, Ester Vergolini, Annalisa Ferrari, Tomaso Cecotto, Massimo Piazza
regia:
Alessandro Comodin
distribuzione:
Okta Film
durata:
102'
produzione:
Okta Film, Rai Cinema, Idéale Audience, Michigan Films
sceneggiatura:
Alessandro Comodin
fotografia:
Tristan Bordmann
scenografie:
Tiziana De Mario
montaggio:
João Nicolau
costumi:
Tiziana De Mario