"Ghost Stories" non ha il timore di dichiarare fin dai primi fotogrammi il suo modello esplicito e la reverenza che prova verso esso, mostrando una montage sequence di finti filmati in super 8, alludenti al sofferto passato del debunker protagonista e al contempo sancendo la propria sudditanza dall'immaginario orrorifico degli anni 70 e da una delle sue più peculiari formule: il film horror a episodi. Incubato tra anni 40 e 50 e sbocciato nelle decadi successive questo sottogenere nato un po' rifacendosi alle raccolte di racconti dei maestri letterari del genere (Poe in primis, difatti il più saccheggiato dal cinema di quegli anni), un po' cercando di facilitare la produzione permettendo riprese sfasate e tempistiche più ristrette (e manovalanze più flessibili), ha d'altronde conseguito molti dei suoi risultati più memorabili proprio in terra d'Albione ad opera d Freddie Francis. Per quanto sia un modello narrativo apparentemente obsoleto (ma solo nel mainstream, "V/H/S" e affini ne dimostrano la possibilità anche al giorno d'oggi) il film del duo britannico può essere definito tutto tranne che un esperimento o un'opera produttivamente peculiare.
L'originalità appare subito cosa ben distante dall'esordio di Nyman e Dyson (d'ora in poi N&D), la cui compostezza tutta inglese che traspare sia a livello registico che attoriale (perché questo, a differenza di ciò che frequentemente avviene nel genere, è in buona parte un "film di attori") risulta molto rassicurante, così come le strizzatine d'occhio al mockumentary, limitate in verità alla sola parte iniziale, e il tentativo di integrare le tre ghost story al cuore della pellicola con la cornice narrativa. Stesso discorso vale, soprattutto nel primo "episodio", per la rappresentazione dell'orrore, tanto prevedibile (silenzio, finto spavento, jump scare, il ciclo si ripete) quanto intelligentemente messa in scena, evitando la meccanicità in cui spessissimo incappano le produzioni d'Oltreoceano e producendo quindi un horror tanto curato (e nella loro semplicità tutti i contributi tecnici sono di alto livello) quanto incapace di scuotere veramente lo spettatore.
Ma la verità è che a partire dal secondo segmento (ma qualche indizio fa capolino anche in precedenza) "Ghost Stories" inizia a distanziarsi dal modello classico del filone e a rivendicare una contemporaneità che è tutto tranne che pretestuosa. Perché la scarsa considerazione che viene riservata ai tentativi del protagonista di venire a capo del primo "caso" affidatogli dal suo mentore, ad eccezione della significante sequenza della chiesa, e la natura sempre più inquietante della realtà rispetto alla narrazione cominciano a mettere in crisi le presunte basi concettuali della pellicola, ovvero la fedeltà ai topoi del sottogenere di riferimento e la conseguente secondarietà della cornice. Con una meccanicità che poco ha di "classico" e che invece molto si rifa al cinema e alla serialità mindfuck contemporanei il film di N&D si rivela progressivamente qualcosa di diverso dal rispettoso omaggio al passato simulato nella prima parte, così come i suoi orrori si rivelano molto più umani che sovrannaturali e l'aspettativa spettatoriale viene costantemente non corrisposta fino a che non giunge l'ultimo, oramai ineluttabile, colpo di scena e questa garbata raccolta di storie di fantasmi inglese si rivela pienamente figlia del suo tempo.
Non si pensi però che questo fatto sia da considerare come eminentemente positivo: l'opera sconta la banalità, una volta scoperto il meccanismo, che spesso connota questo tipo di rivelazioni, mentre la gestione del plot twist finale stronca in un colpo solo il perturbamento provocato da certe accurate scelte narrative della seconda metà e conduce ad una conclusione che è tra l'altro l'unico momento del film in cui la matrice teatrale del film e dei suoi stessi autori appare evidente, depotenziando in parte l'altrimenti ben gestito crescendo rivelativo finale. "Ghost Stories" quindi occulta la sua banalità intrinseca all'interno di una confezione a sua volta "banale" ma di segno completamente opposto e il suo merito principale, strutturalmente e concettualmente parlando, sta nel fare ciò con un controllo davvero ammirevole per due esordienti (non considerando gli invece fondamentali trascorsi teatrali), realizzando così un ponte tra l'horror di buona fattura degli anni d'oro del cinema e quello degli anni 10. Molto di ciò che si è detto in più sul film, sia criticandolo per l'episodicità o il "conservatorismo" che elevandolo a capolavoro, appare pertanto superfluo poiché esso è per l'appunto "esattamente quello che sembra": un inglesemente ben confezionato horror a episodi che ammoderna con arguzia il genere senza particolari ambizioni ulteriori (e quelle che potrebbe avere sono ridicole), colpendo lo spettatore durante la visione e accompagnadolo per mano con leggiadria al termine della stessa. Cosa chiedere di più a un film del genere?
cast:
Andy Nyman, Paul Whitehouse, Alex Lawther, Martin Freeman
regia:
Andy Nyman, Jeremy Dyson
distribuzione:
Adler Entertainment
durata:
98'
produzione:
Warp Films, Altitude Film Entertainment
sceneggiatura:
Jeremy Dyson, Andy Nyman
fotografia:
Ole Bratt Birkeland
scenografie:
Grant Montgomery
montaggio:
Billy Sneddon
costumi:
Matthew Price
musiche:
Haim Frank Ilfman