In "Garage" il cielo è sempre nuvoloso. La cittadina non pare però minacciata da un imminente cataclisma. Il manto nuvoloso sembra essersi fermato non per mettere in allerta la popolazione, ma quasi come tappabuchi, come punto esclamativo ad un'assuefazione al grigiore generale.
Sembra quasi esser chiusa in una scatoletta la periferia di questa sperduta cittadina dell'Irlanda centro occidentale. Ma se per certi aspetti pare essere comunque proiettati in un microcosmo chiuso in se stesso, al di fuori di ogni altro luogo e al di là di ogni altro vivere quotidiano, sono proprio alcune abitudini e gesti dei personaggi che si muovono in questo film a renderlo a suo modo universale. Non che ci siano intenti o anche soltanto ammiccamenti neorealisti, ma temi quali la solitudine e la difficoltà di adattamento alla società che ci circonda anche se applicabili a microstorie sono comunque indici di universalità.
Di primo acchito il mondo di "Garage" riconduce al cinema di Aki Kaurismäki: la cittadina quasi deserta, il susseguirsi di piccole abitudini quotidiane concentrate in pochi ed essenziali luoghi (la casa dell'uomo, la stazione di benzina, il bar, un negozietto, alcune stradine periferiche) ed un antieroe soffocato da un'umanità sottilmente ostile. Silenzi e tempi dilatati, un soffio di brezza grottesca che gestisce personaggi talvolta meditatamente stereotipati.
Man mano che il film avanza, però, si capisce bene che il tragitto intrapreso da Lenny Abrahamson è ben diverso da quello che accompagna le opere del grande regista finnico, in particolar modo quando alla resa dei conti la parabola del debole Josie non si rivela per nulla una fiaba che dona un gratificante sorriso ma, prima l'irruzione di un bigottismo che conserva le proprie radici nei fanatismi religiosi che alimentano da sempre conflitti interni (di cui lo stesso giovane David è a sua volta vittima), poi il destino che volta (forse) definitivamente le spalle ai vinti (il bel finale in sospeso) lasciano un amaro sapore in bocca che per un po' non va via.
Il tutto all'insegna di una disillusione, di uno sguardo che riduce quella che poteva essere l'accettazione dell'io ad un'ulteriore sconfitta e nemmeno quella che pareva essere l'unica ancora di salvezza (il posticino di lavoro alla pompa di benzina) sembra poter sorridere a Josie.
Personaggio da ricordare quello interpretato dall'ottimo Pat Shortt, attore e comico che dà vita ad un'anima solitaria per forza di cose, dietro la cui goffaggine ed ingenuità si cela un forte senso di malinconia.
Il regista non ce lo dipinge con il binomio dello scemo del villaggio - irresistibile simpaticone. Si finisce comunque ben presto per parteggiare per Josie, con lo sperare che la bontà e la tenerezza trasmessa dai suoi gesti e dalle sue parole possa avere la meglio contro l'umanità che gli gironzola intorno. Non ci riesce, ma la nostra mano continuerà ed esser tesa verso questo impacciato eppur giusto uomo.
Un film pessimista dominato da un personaggio che si fa da parte (?) con sereno ottimismo.
cast:
Pat Shortt, Anne-Marie Duff, Conor Ryan, Tommy Fitzgerald, Don Wycherley, Andrew Bennet
regia:
Lenny Abrahamson
titolo originale:
Garage
distribuzione:
Mediaplex Italia
durata:
85'
produzione:
Element Pictures, Broadcasting Commission of Ireland, Film4
sceneggiatura:
Mark O'Halloran
fotografia:
Peter Robertson
scenografie:
Padriag O’Neill
montaggio:
Isobel Stephenson
costumi:
Sonya Lennon
musiche:
Stephen Rennicks