Dietro all'immersione di un reporter bengalese nella cultura tribale del distretto di Purulia, una delle regioni più remote e violente (imperversa la guerriglia maoista) del suo stato, lo sguardo di un regista straniero (Italo Spinelli: formazione teatrale, esperienza nel film documentario, fondazione e direzione del Festival Asiatica Filmmediale, un saggio "tra Ray e Bollywood") sulle contraddizioni dell'India. Girato da una troupe mista italiana e indiana, con attori per lo più avvezzi alle coproduzioni internazionali (ma non per questo impeccabili).
Uno sguardo indubbiamente onesto. Se lo stile dei maestri bengalesi è un miraggio, la falsità formato export alla Mira Nair è altrettanto lontana (l'operazione più prossima, tra quanto si è visto in Italia negli ultimi anni, è forse quella compiuta da Mohsen Makhmalbaf con "Viaggio in India". Spinelli, meno intellettuale e introspettivo, esce bene dal confronto). L'icona turistica è un rischio costante (notare l'uso dei vecchi e più popolari nomi delle città indiane) ma l'autore, quando ci casca, si rialza immediatamente. La scelta di doppiare i reporter (che parlano in bengali) e non Gangor e le altre "vittime", aiuta inoltre a scacciare il patetico. E gli aspetti più controversi sono affrontati senza retorica.
Uno sguardo altresì non banale. Lo spunto è il racconto "Dietro il corsetto" della scrittrice candidata al Nobel Mahasweta Devi, da cui Spinelli ricava il tema principale (di un film che non brilla per articolazione e sottotesti): l'effetto dell'inchiesta giornalistica sulla realtà della popolazione indigena. Come cambia la vita di una donna che ha lasciato intravedere il seno nella foto di un reporter ("borghese")? Come reagiscono la comunità e l'opinione pubblica, locale e non? Gli esiti sono tutt'altro che univoci. Certo, la narrazione spesso arranca. Ma è alquanto raro, al cinema e non solo, imbattersi in un'osservazione così schietta, diretta, rispettosa dell'altrui cultura.
23/02/2011