Un uomo siede sul lettino di un medico, davanti a lui le immagini a raggi X dei suoi polmoni mostrano un’inquietante macchia nera, sulla quale il dottore richiama l’attenzione. L’uomo fugge, insulta il camice bianco, non vuole sentire ragioni. Sale in macchina, si infila in bocca un’altra sigaretta, fa per accenderla, esita, infine la accende per poi gettarla dal finestrino.
Poco dopo lo stesso uomo si ritrova coinvolto in una sparatoria, una trappola tessuta a suo danno, dalla quale però riesce a fuggire portando con sé una giovane prostituta, vittima dei suoi stessi aggressori. Presto i due recuperano la sorellina di lei, Tiffany, e assieme intraprendono una fuga on the road verso Galveston, città costiera nella quale cercheranno di nascondersi e di iniziare una nuova vita che ha il sapore di una tenera illusione se consideriamo il fatto che il destino di lui sembra essere già segnato e che entrambi, sotto sotto, sanno che verranno raggiunti.
Nonostante l’escamotage dello pseudonimo, si percepisce in maniera forte, in questo “Galveston”, l’impronta di Nic Pizzolatto, che firma la sceneggiatura con il nome di Jim Hammett. In effetti l’atmosfera decadente che pervade l’opera, la caratterizzazione dei personaggi, opposti ma complementari, gli elementi noir, ricordano in tutto e per tutto la sua creatura più celebre: la serie tv di successo “True Detective”, a cui si aggiunge forse un tocco à-la “Breaking Bad” dato dall’incipit. Il soggetto è ricco di spunti interessanti, ma fatica a svilupparli pienamente. In questo aspetto si può forse individuare il limite più grande del film: Pizzolatto sembra più a suo agio con la serialità che con il lungometraggio, che non gli concede il tempo di approfondire alcune idee, che risultano dunque soltanto accennate e che lasciano lo spettatore con un certo amaro in bocca.
Ma a questo difetto della sceneggiatura sopperisce la bravura della regista Mélanie Laurent, che dimostra di cavarsela benissimo con un testo dal carattere molto maschile e molto americano, rompendo le barriere geografiche e di genere e adottando delle soluzioni stilistiche che innalzano il livello dell’opera. Laurent riesce infatti (avvalendosi anche dell’aiuto del direttore della fotografia, Arnaud Potier) a comunicare, tramite lo stile, quella stessa freddezza che è propria dei personaggi: l’utilizzo di lenti ad angolo ampio permette ad esempio di mantenere nell’inquadratura, assieme ai protagonisti, il panorama ostile che li circonda, il quale, oltre a isolare i volti e a trasmettere un senso di solitudine, assume un preciso carattere semantico fino a giungere, sul finale, a una caratterizzazione metafisica dal sapore fatalistico. La luminosità cupa accentua poi ancora di più questo aspetto, permettendo alla regista di concentrare i pochi momenti di felicità e spensieratezza in alcuni dettagli più luminosi: il colore rosso vivo del vestito di Rocky, i raggi del sole che illuminano il volto della piccola Tiffany.
Purtroppo il tutto fatica a decollare, a compattarsi e a convincere: i bordi rimangono smussati, c’è ancora spazio per affinare i particolari, per definire i contorni. E il sospetto, come già si diceva, è che ciò sia dovuto più che altro alla penna di Pizzolatto, più a suo agio con i tempi televisivi che con quelli cinematografici.
cast:
Ben Foster, Elle Fanning, Lili Reinhart, Marìa Valverde, Beau Bridges
regia:
Mélanie Laurent
distribuzione:
Movies Inspired
durata:
91'
produzione:
Jean Doumanian Productions, Low Spark Films
sceneggiatura:
Nic Pizzolatto, Mélanie Laurent
fotografia:
Arnaud Potier
scenografie:
Lisa Myers
montaggio:
Joseph Krings
costumi:
Lynette Meyer
musiche:
Marc Chouarain, Eugenie Jacobson