“Dove c’è molta luce ci sono altrettante ombre”
GOETHE
Era una notte buia e tempestosa a Ginevra, poco più di duecento anni fa, quando la giovane Mary Shelley trasferì per iscritto un sogno lucido che aveva fatto: uno scienziato pallido, un esperimento ai limiti della scienza, una creatura che prendeva vita. Quel racconto era la risposta a una sfida tra amici: i poeti lord Byron e il compagno di Mary, Pierce Bysshe Shelley, che durante un’estate infestata dal maltempo si erano rinchiusi in casa sul lago Léman a leggere racconti dell’orrore, improvvisando un contest letterario secondo la moda dell’epoca. Mary, appena diciottenne, già avida lettrice di romanzi gotici, con un debole per il bardo inglese John Milton, fu suggestionata dai discorsi sulle nuove frontiere della scienza nonché dei curiosi esperimenti londinesi del fisico italiano Giovanni Aldini, che portando alle estreme conseguenze le teorie del galvanismo, aveva cercato di rianimare i cadaveri attraverso l’elettricità. Fu così che nacque il mito di Frankenstein e del suo mostro.
Il romanzo, uscito nel 1818 e rieditato nel 1831, fu aspramente criticato ma diventò un successo di pubblico, tanto che già pochi anni più tardi fu proposto a teatro; è un passaggio fondamentale, perché gli adattamenti per il palcoscenico trasfigurarono l’azione del romanzo e le molteplici ambientazioni, che spaziavano da Ginevra, Ingolstadt, il lago di Como e il Polo Nord, in una riduzione più compatta. Una fama che si amplifica anche nel Novecento: è proprio la trasposizione del 1927 di Peggy Webling che costituirà l’ossatura del canovaccio del capolavoro cinematografico di James Whale, datato 1931.
Il mostro Universal(e)
L’intuizione di portare sullo schermo il dottor Frankenstein e il suo mostro si deve al produttore Carl Laemmle jr., figlio del proprietario della Universal Pictures, che aveva colto le enormi potenzialità commerciali dei soggetti horror; reduci del successo di Dracula del 1930 firmato da Tod Browning con Bela Lugosi nella parte del vampiro, si pensò di ingaggiare il regista di origine francese Robert Florey, patito di cinema tedesco, per dare il via alla produzione. La regia venne in seguito affidata all‘inglese James Whale, che tuttavia mantenne l’impianto espressionista ideato dal predecessore: l’uso dei giochi di luce, i soggetti in penombra, così diverso dalla limpida messinscena che il cinema americano aveva proposto fino a quel momento, contribuiranno in maniera determinante a marchiare il genere horror per i decenni a venire, almeno quanto le scenografie sghembe, verticali, tipiche dei film UFA. C’è una linea nera, e nemmeno troppo sottile, che unisce il Caligari di Robert Wiene, il Golem di Paul Wegener e il Nosferatu di Murnau a questo film. Nacque così il secondo e più famoso dei cosiddetti “mostri della Universal”, una carrellata di demoni e maschere che apriranno un vero e proprio ciclo.
Il britannico James Whale si era contraddistinto per una attività teatrale di successo, tanto da ricevere la chiamata di Hollywood proprio nel momento del definitivo passaggio dal muto al sonoro; i registi che provenivano dal teatro erano molto richiesti perché, a differenza dei vecchi maestri del muto, sarebbero riusciti a esaltare con maggiore disinvoltura il campionario vocale che conoscevano bene grazie alla direzione degli attori sul palcoscenico. Whale divenne noto, infatti, come responsabile dei dialoghi finché firmò le sue prime regie cinematografiche, frutto di precedenti pièce teatrali: “Journey’s End”, un film sulla Grande Guerra, e “La donna che non si deve amare” (“Waterloo Bridge”), entrambi grossi successi di critica e pubblico. Colin Clive, connazionale di Whale, anche lui proveniente dal palcoscenico, e Mae Clarke, talentuosa attrice americana, protagonisti di questi due film, saranno scelti da Whale per la sua prossima opera.
Il canovaccio è noto: il dottor Frankenstein dà vita per mezzo dell'elettricità a una creatura assemblata con pezzi di cadaveri; il mostro, tormentato dall'assistente dello scienziato, si ribella e comincia a uccidere.
Genesi di una creazione
È doveroso citare la quantità di trovate presenti in questa pellicola, talmente imitate in seguito da risultare a occhi contemporanei come elementari stereotipi: lo scienziato fuori di senno, l’assistente gobbo, l’esperimento ai confini della scienza, il lugubre maniero infestato da un temporale, il matrimonio mandato a monte dal mostro, la rivolta della comunità contro lo straniero, il rogo finale; tuttavia, la sapienza di Whale e del suo cast fu quella di riuscire a dosare questi ingredienti, rinfocolando la pellicola anche di tocchi melò o addirittura leggeri (la storia d’amore del dottor Frankenstein con Elizabeth, l‘amico Victor come terzo incomodo, la bisbetica caratterizzazione del padre del dottore), a cui si aggiungono alcuni tocchi da vero maestro come i quattro celebri, innovativi close-up sulla foto di Henry Frankenstein, il volto di Elizabeth, quello di Victor e la governante, che introducono la scena del colloquio tra la fidanzata del dottore e l’amico di famiglia, in cui si discute della presunta follia dello scienziato. La portata di questi elementi sul pubblico dell’epoca fu talmente suggestiva che la Universal decise di far introdurre la visione da un finto prologo, in cui si avvertiva il pubblico di ciò che si preparava ad assistere.
Il successo di Frankenstein e del seguito del 1935, “La moglie di Frankenstein”, finirà per rivelarsi un boomerang per James Whale poiché, assieme all’altro capolavoro “L’uomo invisibile” del ’33, relegherà il regista inglese nel genere horror; quando Whale deciderà, infatti, di girare film al di fuori del circuito della paura, non riuscirà più a ottenere il riscontro degli esordi. Complice la sua dichiarata omosessualità in un mondo, quello hollywoodiano degli anni '30 ancora fermamente puritano, Whale verrà lasciato ai margini della produzione degli Studios e si allontanerà dal cinema, fino alla malattia che lo condurrà al triste suicidio del 1957.
Un percorso inverso, se vogliamo, occorrerà al protagonista Boris Karloff. Fu il compagno di Whale a presentargli l'attore, anche lui di origini inglesi; la leggenda vuole che il regista optò per lui perché attratto dalla "forma del suo cranio". All'epoca, Karloff era un interprete poco noto al grande pubblico, nonostante avesse all'attivo oltre ottanta film tra muto e sonoro, anch'egli con una solida attività teatrale alle spalle tra USA e Canada. Il successo del “suo” Frankenstein lo rese celebre in tutto il mondo, associandolo per sempre a questo ruolo; tuttavia, per Karloff si tratterà di qualcosa di cui andarne fieri, poiché la qualità della recitazione dell'attore inglese sarà immediatamente riconosciuta nonostante il pesante trucco e il resto del costume, anzi, forse esaltata proprio da questi. Per Karloff sarà, dunque, il trionfo tanto auspicato in gioventù, che lo metterà in competizione con l'altro campionissimo del genere horror anni '30, quel Bela Lugosi a cui aveva soffiato la parte della creatura più famosa della storia del cinema.
“It’s alive!”
L’elaborata ideazione delle sembianze del mostro merita un discorso a sé stante, trattandosi di un incredibile capolavoro di creatività e maestria a tutt’oggi insuperato. Frutto di un compromesso a quattro mani tra Whale e il celebre truccatore Jack Pierce, nonché di ulteriori accorgimenti dello stesso Karloff, è proprio grazie a questa maschera immortale che la pellicola diventerà un instant classic. Il mostro è un qualcosa che scompagina le carte e riesce a entrare immediatamente nell’immaginario collettivo: la fronte alta, i capelli posticci, le palpebre socchiuse, la statura imponente, la forza superiore, la postura curva in avanti e gli elettrodi piantati sul collo lo faranno assomigliare a un robot umanoide; la creatura non sa parlare, però la sua capacità di reagire agli impulsi, come ai comandi della voce del dottore e alla luce, lo renderà una vera e propria “intelligenza artificiale”. Ma non solo: un ruolo primario gioca anche il modo in cui il dottore la rende viva, e cioè per mezzo dell’elettricità. Nel romanzo di Mary Shelley, il racconto della creazione si faceva volutamente mistico, assomigliava al risultato di una magia; nel film di Whale, invece, non ci troviamo più nell’antro di un‘alchimista, ma nel laboratorio di uno scienziato moderno; il dottore disseppellisce cadaveri dai cimiteri e fa rubare un cervello dall’università di medicina, certo, ma poi impone un rigoroso metodo sperimentale alle sue scoperte. È un visionario, “coi piedi poggiati fortemente sulle nuvole”, direbbe Flaiano; eppure, è capace di momenti di estrema, dolente lucidità, magnificamente resi dal suo eccezionale interprete, quel Colin Clive che si aggrapperà alle sue stesse inquietudini (l’attore era un alcolista e morirà a soli trentasette anni).
Dal canto suo, l’interpretazione di Karloff donerà al mostro l‘umanità e lo status di vittima, fondamentale per l’immedesimazione con il pubblico. La sua ribellione è, dunque, una reazione, una rivolta contro il creatore che l’ha rifiutato; la violenza è la stessa di un figlio ripudiato dal padre. Il mostro non è ancora uomo, ma una strana creatura di indole puberale, nonostante l’imponente statura; Karloff intuisce che dovrà assumere uno sguardo innocente, da fanciullo, pieno di sensibilità. Inoltre, l’incapacità di profferire parola, così diversa dall’eloquio forbito e irrefrenabile della creatura nel romanzo della Shelley, lo relegano a una muta sottomissione, simile a quella di un animale domestico. E c'è da credere che se non fosse stato dotato erroneamente del cervello di un criminale (un'invenzione degli sceneggiatori non presente nel romanzo né a teatro, anche questa imitatissima), la creatura si sarebbe lasciata tormentare e sottomettere senza opporre resistenza.
Il mostro brama la luce, da dove proviene, un grembo materno al quale è stato sottratto, proprio come un bambino che non ha chiesto di nascere; sono i riflessi di quell’Adamo miltoniano del “Paradiso perduto” che domandava a Dio perché fosse stato sottratto all’oscurità. Il mostro è solo, ma è vivo, come declama, sgomento, il dottore al momento della creazione (la celebre battuta it’s alive, it’s alive, it’s alive!); ma l’amore e l’affetto gli vengono subito negati e l‘immediata distruzione si lega a doppio filo con la sua stessa nascita, perché è impossibile, per l’uomo ma anche per lo scienziato, sostenerne il peso. Un attimo dopo aver dato vita alla creatura, infatti, il dottor Frankenstein afferma allucinato “now I know what it feels like to be God” (ora so come ci si sente a essere Dio, altro famoso epitaffio che subirà il taglio della censura); poi cade stremato, sopraffatto dalle conseguenze del suo stesso operato. È un momento di riflessione faustiana, morale, umana, troppo umana; una questione di bioetica, di fondamentale importanza per la scienza moderna.
La creatura nell’era della riproducibilità genetica
Whale non rifugge nemmeno alla suggestione doppelgänger, altro classico tema della cultura occidentale, presente in Frankenstein: il mostro è uno spaventoso doppio del dottore, il risultato in carne e ossa delle sue ossessioni, un simulacro, lo specchio che riflette l’altra faccia della scienza, una curvatura dell’intelletto, insostenibile per la ragione e una mente sana. Ed è così reale questa suggestione che già a teatro il dottor Frankenstein perdeva il suo nome in favore del mostro, in un inarrestabile meccanismo di metonimia, una modalità di sostituzione che identificherà opera e autore sotto lo stesso io.
Se la creatura viene bandita dall’unico uomo che potrebbe comprenderla (in senso letterale: farla tornare a sé, e in sé), allora non ha più simili, è irrimediabilmente diversa. Perché, inoltre, non si tratta di un cadavere che torna in vita, uno zombie, o un non-morto come Dracula; la creatura è qualcosa che prima non esisteva. È forse proprio questo essere altra che la rende un bersaglio: verrà tormentata col fuoco da Fritz, l’assistente, relegata alla prigionia; poi, il professor Waldman, l’ex mentore dello scienziato, proverà a ucciderla. Ma alla violenza privata si assocerà ben presto quella sociale: quando il mostro, ormai libero, causa involontariamente la morte di una fanciulla, l’intera comunità del villaggio del dottore si metterà sulle sue tracce, scatenando una vera e propria caccia all’uomo che assomiglia molto a una caccia alla strega, un capro espiatorio; tanto che la creatura verrà data alle fiamme.
È impossibile dire, persino per il dottore, a cosa serva il mostro, quale sia il suo scopo; è la perfetta sintesi di una pura volontà, creazione solo per la creazione. In questo senso, il dottore assume le caratteristiche di un’artista accanto a quelle di scienziato, e il mostro è la sua opera d’arte. Così, grazie al coraggio estremamente moderno di Whale, la rappresentazione dell’esperimento finale, la creazione del mostro, diventa messianica, artistica e scientifica insieme: l’assunzione “in cielo” del tavolo operatorio dove viene assemblata la creatura, seguendo quella verticalità proprio di tutta la pellicola; l’uso della corrente elettrica e dunque delle estremi frontiere del galvanismo; la teatralità della messinscena, che conferisce all’esperimento una modalità da palcoscenico, con lo scienziato che diventa istrione, la sua spalla (l’aiutante Fritz) e un pubblico curioso (Elizabeth, Victor e il professor Waldman) che assiste impotente. È un risultato grandioso quello a cui giunge Whale, attraverso la conoscenza dei meccanismi teatrali inseriti nella forza del neonato cinema sonoro; ma i prodromi di questo “controllo totale della creazione” erano già presenti nel capolavoro della Shelley, che attraverso la struttura del romanzo epistolare conferito al suo Frankenstein, maneggiava saldamente le redini della suspence e, nella rielaborazione lirica e autoriale, dei meccanismi della paura.
Proprio in quegli anni, il filosofo tedesco Walter Benjamin teorizzava la fine del modello del prodotto d’ingegno come opera inimitabile, poiché attraverso la raggiunta capacità della tecnologia di riprodurre qualsiasi manufatto, anche l’idea dell’artista tradizionale come unico possessore dello “stampo” veniva a cadere con l’avvento del processo industriale della riproducibilità tecnica. A spaventare il dottore è certamente l’ipotesi che il mostro possa essere riprodotto su larga scala, o che riesca persino a riprodursi da sé. Questa ipotesi diventava reale già nel romanzo della Shelley (e verrà ripresa nel sequel “La moglie di Frankenstein”) dove la creatura, per combattere la solitudine abissale nella quale il dottore stesso l’aveva posta, portandola in vita, chiedeva allo scienziato una compagna; una richiesta umanamente accettabile, ma dalla portata potenzialmente catastrofica, allorché i due esseri fossero stati in grado di generare una prole e questi, in seguito, un’intera discendenza, una razza di superuomini che avrebbero potuto mettere in scacco l’umanità intera. È chiaro che siamo dentro un parossismo che si ripete quando una nuova tecnologia prende il posto della precedente: il timore che questa concepisca il definitivo oltreuomo nietzschiano il cui controllo sfugga al creatore; a ben vedere, sono gli stessi timori che si affacciano hic et nunc nel campo della clonazione umana e delle ricerche della robotica connessa all'intelligenza artificiale. Frankenstein, se vogliamo, oltre a un cugino dell’uomo lupo, è anche un antenato della pecora Dolly e del primo uomo clonato.
Dunque, il momento della creazione, e quindi in ultima battuta lo stesso mostro, possono essere letti in chiave metatestuale: l’ideazione del romanzo da parte della Shelley, apparso in un sogno, fa il paio con la nascita della creatura nel libro, avvenuta come per incanto di notte, come una “conclusione irrazionale” di un processo più vicino alle regole della metafisica che della scienza; di contro, ma in maniera del tutto speculare, la creazione del Frankenstein di Whale non può, invece, autogenerarsi, ma è il frutto di un lavoro in team, appartenente al mondo della tecnica cineteatrale, dalle forte conseguenzialità, “montato” ad arte, e dunque assume le caratteristiche stesse di un film. Frankestein è la copia deformata del dottore, proprio come lo scienziato è un alter ego dell’autore (di Whale come della Shelley): la creatura coincide, seguendo questa lettura, con l’opera stessa.
cast:
John Boles, Edward Van Sloan, Colin Clive, Dwight Frye, Frederick Kerr, Mae Clarke, Boris Karloff
regia:
James Whale
distribuzione:
Universal Pictures
durata:
70'
produzione:
Universal Pictures
sceneggiatura:
Francis Edward Faragoh, Garrett Fort
fotografia:
Arthur Edeson
scenografie:
Charles D. Hall
montaggio:
Clarence Kolster