"La guerra insomma era tutto quello che non si capiva"
F. Celine, Viaggio al termine della notte
Demester è un contadino di poche parole, giovane e sempre incupito, con Barbe ha una non-relazione fatta di silenzi e rapidi e tristi incontri carnali consumati nei campi e nei boschi. Barbe è una ragazza con problemi di nervi, generosa nel darsi, così come nel non farsi capire. Demester e altri giovani, tra i quali c'è anche l'altro amante di Barbe, del paese partono per la guerra. Il ritorno dalla follia omicida sarà un modo di ricominciare tutto da capo.
"Flandre" è un film dal procedere lento, divisibile in tre parti: la campagna, la guerra, il ritorno. Ogni parte si incastra con le altre come un'eco che riverbera. E quindi la guerra rende esplicita quella repressione, quei silenzi, i vuoti di comunicazione, e il ritorno finale non è altro che voler spazzare via le inumane violenze per ritrovare una pace utopica.
La messa in scena è frontale, asciutta. Bruno Dumont evidentemente punta in alto, ma in due direzioni: l'ambientazione rurale è volta a scovare la bellezza dei paesaggi, a insistere su aperture di spazi verdi, a restituire un tono poetico e superiore della natura. Mentre la parte della guerra sembra guardare Kubrick e il suo Full Metal Jacket. Stranamente le due cose danno l'impressione di coesistere, dato che la guerra di Dumont è quanto di più anti-spettacolare si possa immaginare. Una guerra così forse non la si era ancora vista, dove la totale assenza di retorica non permette nemmeno la possibilità di capirci qualcosa. Al di là della facile trovata di non dare un nome al conflitto, è più il fatto di essere rappresentata come una sequela di disumane violenze, dove non c'è un vero motore dell'azione se non, forse, quella della sopravvivenza.
Ed è un po' questa cosa che disturba in fin dei conti, il voler sopravvivere diventa forse l'unica logica. E non c'è una vera logica narrativa nemmeno nelle altre due parti del film: Barbe si concede fisicamente a un altro, ma non scatena alcuna gelosia in Demester. Quest'ultimo lascia una fattoria per andare in guerra senza preoccuparsi di cosa succederà in sua assenza. Per fare due esempi. Un filo di inquietudine attraversa il tutto. In tutto questo, grande pregio del regista è la capacità di non apparire mai cinico, di non essere mai il sadico osservatore di un mondo degenere.
La campagna rappresentata da Bruno Dumont è reale, fango e merda d'animali nei cortili delle cascine, colline coltivate belle da sembrare dei quadri. È una terra tanto concreta da nascondere forse troppo bene l'assetto metaforico del film. È forse la superficie piana a calma di un mare che negli abissi rimane sempre in tempesta? Non è dato di saperlo con certezza, perché il film si chiude senza dare risposte e forse senza nemmeno aver fatto delle domande tanto rimane discosto dalla tipica struttura di causa ed effetto che regola un po' tutto l'universo.
Dunque si azzarda nel finale, suggerendo quasi una sovrapposizione fra la sofferente ragazza e la Terra stessa, le Fiandre, il deserto. Una sorta di slancio poetico criptico e di nuovo straniante.
"Fiandres" alla 59esima edizione del Festival di Cannes, nel 2006, vinse il Grand Prix Speciale della Giuria (presieduta da Wong Kar Wai). Visto oggi instilla forse più dubbi che certezze. E questo non può che essere un bene.
24/05/2016