Titolare di una filmografia ancora giovane con solo tre film all'attivo Claudio Giovannesi è comunque riuscito a imprimere al suo cinema un forte senso di identità che trova riscontro negli
incipit dei suoi due ultimi lavori. In "
Alì ha gli occhi azzurri" distribuito nel
2012 la storia si apre con il protagonista impegnato insieme a un amico in una rapina ai danni di un negozio. Dovrebbe essere lui a puntare la pistola in faccia al titolare, poi le sue titubanze suggeriscono al compagno di prendere in mano la situazione lasciando Alì a fare il palo con il motorino acceso pronto a partire. In "Fiore", il film appena uscito nelle sale, il contesto è più o meno simile perché la sequenza incriminata ci mostra una coppia di ragazzine munite di coltello che aspettano il momento buono per impossessarsi dei cellulari di due coetanei. Detto che nel primo caso l'episodio non ha conseguenze immediate per le parti in causa ed è usato più che altro in funzione introduttiva mentre per quanto riguarda il secondo ciò che vediamo fa da preludio all'arresto di Daphne e al successivo internamento in un istituto di detenzione minorile, ciò che conta in questa sede è sottolineare l'esistenza di un peccato originale che condiziona l'esistenza dei personaggi raccontati da Giovannesi, il quale, partendo dalla negazione di una normalità che dovrebbe essere condizione indispensabile della giovinezza di Alì e di Daphne, procede in maniera binaria: da una parte preoccupandosi di dare un quadro esatto dell'ambiente che ha prodotto il danno; dall'altra raccontando il tentativo dei protagonisti di ribellarsi a un destino già scritto anteponendo la vitalità tipica dei loro anni al darwinismo sociale che li vorrebbe ad oltranza nel ruolo di umiliati e offesi.
Da questo punto di vista "Fiore" sembra voler stringere le fila del discorso perché il carcere, con le sue regole restringenti e con i suoi spazi limitati offre al regista la possibilità di mostrare con maggior efficacia l'interazione tra l'individuo e il mondo circostante, soprattutto quando si tratta di mostrare il rapporto di causa effetto tra la mancanza d'empatia rispetto ai bisogni del singolo, uniformati a principi di ordine e disciplinamento destinati a rimanere all'esterno delle cose, e la rabbia di Daphne, per niente disposta a mettere da parte la propria personalità tanto con le compagne di cella quanto con le educatrici che si alternano davanti al suo cospetto. Con la differenza che rispetto alla bruciante attualità di "Alì ha gli occhi azzurri", in cui le difficoltà incontrate da Alì nel suo percorso d'integrazione permettevano al film di entrare nel merito di quello scontro di culture messo in circolo dal flusso migratorio di cui è oggetto il nostro paese, "Fiore" si colloca nella realtà con una prospettiva che privilegia la dimensione più intima dei personaggi, descrivendo a cuore aperto e a nervi scoperti il bisogno d'amore della protagonista. In questo senso, fatti i dovuti distinguo, il lungometraggio di Giovannesi potrebbe considerarsi una sorta d'antidoto alle espressioni più retrive di quel cinema mainstream che troppo spesso svilisce il tema dell'amore giovanile.
Con ciò non vogliamo dire che "Fiore", raccontando dell'amore di Dahne nei confronti di Josh - anche lui impegnato a scontare i propri errori di gioventù - venga meno alle sue funzioni di opera impegnata, comunque assicurate da una messa in scena che rasenta il vero sia nella ricostruzione degli aspetti ambientali quanto, e soprattutto, nella scelta di utilizzare attori
sociali che, fatta eccezione per Valerio Mastandrea (in un ruolo, quello del padre di Daphne che sembra uscito da un film di Ken Loach) hanno sperimentato in prima persona le vicissitudini materiali e/o psicologiche dei loro personaggi. Quello che invece preme evidenziare è che Giovannesi, alla maniera di certi registi americani degli anni settanta, riesce nell'intento di intrattenere il pubblico senza rinunciare a fornire spunti di riflessione rispetto al dinamismo e perché no della bellezza anche estetica (la fotografia è di Daniele Ciprì) del narrato. Come pure è importante far notare come la scelta di Daphne Scoccia - splendidamente ferina dentro e fuori le
sbarre della sua giovane vita - si collochi sulla scia di una serie di attrici che dall'Alba Rorhwacher de "
Vergine giurata" alla Roberta Mattei di "
Non essere cattivo", e senza dimenticarsi dell'Emanuela Cescon di "Primo amore", rientri nella prerogativa di certo cinema d'autore che nell'androginia filiforme e nervosa del corpo femminile sembra rimandare al malessere esistenziale e alla solitudine rintracciabile nella nostra contemporaneità. Con un tocco di speranza per un futuro migliore che l'ultima sequenza di "Fiore" ci regala, a conclusione di una prova di sicuro valore.
27/05/2016