Rosa Maria, giovane professoressa universitaria di Lisbona (Leonor Silveira), viaggia in crociera verso Bombay in compagnia della figlia Maria Joana facendole da guida nei luoghi di maggiore interesse storico e culturale del Mediterraneo. Sulla nave conoscono l'elegante capitano (John Malkovich) e tre moderne gentildonne di nazionalità diverse, francese (Catherine Deneuve), italiana (Stefania Sandrelli) e greca (Irene Papas).
Comincia con un'impostazione da docu-fiction di viaggio, con espedienti e stile quasi televisivi, saltuari incontri con pescatori, attori, guide, preti ortodossi, vere e proprie visite filmate condite di dettagli e curiosità. La madre, protettiva e paziente, fa da cicerone alla figlia, una bambina ingenua e affascinata da quanto vede. Siti storici dal Portogallo a Marsiglia, poi Napoli, la Grecia, Istanbul, l'Egitto. Una coppia madre-figlia perfetta, addirittura inverosimile - ma il realismo non c'entra niente -, inoffensiva, inattaccabile e distante da qualunque tipo di glamour, cinismo, violenza o invasione. Fin qui un film parlato principalmente in portoghese e francese, dalla giovane e colta insegnante con le sue storie di miti, leggende, ricostruzioni storiche. Poi De Oliveira ferma tutto. Non cambia registro, ma semplicemente sposta lo sguardo altrove, e piazza un lungo dialogo cosmopolita: il capitano a tavola con tre donne emancipate e impegnate, ognuno comunica nella propria lingua e si comprende alla perfezione, dissertando su amore, lingua, politica, cultura, storia. Diventa allora un film parlato in inglese, francese, italiano, greco, portoghese: una babele dell'Europa unita ma impossibile da unire, colta e raffinata, dove però la lingua non è ostacolo, ma mezzo, prezioso veicolo di cultura. E il ruolo del cinema in tutto questo sembra quello di valido testimone, muto e silenzioso almeno lui, discreto nel restituire i dialoghi e nel mostrare i luoghi.
Interessante prova d'attori. De Oliveira rende omaggio a tre dive, ritrova la fedele Silveira, la ripropone a fianco della Deneuve e di Malkovich tre anni dopo "Ritorno a casa", ed è facile prevedere si sia trattato di uno stimolante esercizio di recitazione viste le diverse lingue coinvolte. Catherine Deneuve e Leonor Silveira emergono su tutti, mentre Malkovich sembra fuori posto e la Sandrelli poco coinvolta e sotto tono.
Gineceo dove gli uomini sono quasi assenti, e anzi ne viene perfino auspicata la latitanza in favore di un governo muliebre-centrico. I personaggi di De Oliveira appartengono a un tempo sospeso, a una classe sociale alto borghese, aristocratica nei modi, sofisticata nel parlare, lontana da qualsiasi malignità, gentile e affascinante, apparentemente intoccabile dal male del mondo. Fino al finale. E così è il suo cinema, quasi pedante, elegante, formale, ma pronto a disorientare da un momento all'altro, fatto di inquadrature lunghe, rigoroso nella simmetria del montaggio, nei tempi, nella logorrea con cui vengono sommersi gli spettatori in un incanto linguistico da mettere a dura prova la pazienza in alcuni momenti. E poi, senza complimenti, il maestro portoghese sfodera come uno schiaffo un finale logico e geniale, al limite dell'assurdo e dell'iper realismo, minimalista ed esagerato, smaccatamente ironico o profondamente drammatico a seconda di come lo si vuole interpretare.
Atmosfera serenamente decadente considerando il finale, impermeata di nostalgia per un'Europa scomparsa e in estinzione. Un invito al dialogo tra culture, un viaggio di scoperta attraverso uno sguardo innocente, digressioni di spessore, colte e raffinate, una storia sospesa se non del tutto inesistente, fanno di "Un film parlato" un'opera indefinibile, affascinante nel suo ermetismo, a tratti seccante, che lascia addosso l'espressione di John Malkovich nell'ultimo fotogramma.
03/06/2010