Pupi Avati completa quella che lui stesso ha indicato come la "trilogia del padre", e dopo l'Abatantuono assente de "La cena per farli conoscere" e l'iper-protettivo Orlando de "Il papà di Giovanna", tocca a un De Sica cialtrone, truffaldino e privo di scrupoli, prodotto di un'Italietta furbetta e arrampicatrice, che sfrutta il figlio per salvare dalla bancarotta il proprio impero finanziario.
Luciano Baietti (Christian De Sica) sposa Fiamma (Laura Morante) nel 1992, quando sono già genitori di due bambini piccoli; il minore, Baldo (Nicola Nocella), ingenuo e bonario studente del Dams con aspirazioni da regista, è quello che verrà richiamato dopo anni di silenzio dal padre con la scusa di ereditarne la holding, quando in realtà si tratta di una "contromossa" orchestrata dal deus ex machina, il professor Bollino (Luca Zingaretti).
Con il tocco leggero e disincantato, amaro e ironico delle sue commedie, Avati rivolge lo sguardo ai tempi attuali, ai manager-squalo - coi loro matrimoni di interesse, gli intrecci politici, i favori, le raccomandazioni, le ragazze, le intercettazioni, in un campionario di cronaca contemporanea - a cui contrappone l'ingenuità di Baldo, agnello gettato senza scrupoli nella tana dei lupi, privo di qualunque difesa perché cresciuto da una madre debole, esaurita e altrettanto ingenua, alla ricerca dell'affetto di un padre assente maturata in un'ostinata attesa.
I personaggi di Avati non sempre aprono gli occhi, non hanno rivelazioni; molte volte ritornano sui loro passi, o commettono vecchi errori con disarmante caparbietà, il che li rende perfettamente umani. Avati si mette dalla parte degli ingenui, che si conservano incorrotti per natura.
Però ne "Il figlio più piccolo" quello che finisce per non convincere è l'indeterminatezza che ne risulta; non tanto le poche risate, quanto l'impressione di un film sospeso, incompleto, insoddisfacente nelle conseguenze, quasi inverosimili, nella scappatoia di un facile contrappasso. Non emerge insomma una critica vera e propria, ma un bozzetto che poteva essere, ma non è stato: poco graffiante, poco incisivo, dove manca l'a fondo che ci si aspetterebbe date le premesse.
Baietti/De Sica non ha la forza di un vero cattivo, è snaturato quanto basta, ma si guadagna quasi la simpatia se consideriamo che è un debole, un burattino manipolato dal vero burattinaio mefistofelico, Bollino/Zingaretti, che forse consegna il personaggio più interessante del film, quello di un frate "congedato", genio della finanza freddo e calcolatore. Ma tutti i protagonisti sembrano sospesi in un limbo di indeterminatezza.
Lo spirito della commedia italiana, più volte chiamato in causa gratuitamente (contesti sociale e produttivo sono ormai troppo differenti), oltre alla presenza di Riz Ortolani che firma le musiche, è qui relativamente riconoscibile nei "mostri" sociali: ipocriti, avidi, e insensibili alle conseguenze delle loro azioni e agli affetti, tanto che emerge la contraddizione della famiglia al primo posto, o quasi, perché al primo posto ci sono sempre e comunque i soldi. Ma dove la commedia italiana criticava senza farlo vedere, toccava nevralgie sotto la finta liberazione della risata, moralizzava senza morali, qui Avati cede quando arriva il momento di pungere. La trama si disfa in sfilacci letterari, in un contorno di personaggi-macchietta poco definiti. Un ritmo altalenante, con una prima parte vivace, e un seguito prolungato, una sorta di lungo finale sospeso (come accaduto in altri film di Avati).
Più che un ritratto di padre o di famiglia disgregata, sembra interessante notare come si ricalchi lo schema del triangolo de "La seconda notte di nozze" con lo sfruttato/ingenuo e i due sfruttatori, l'uno con scrupoli l'altro no.
L'ironia di Avati e la lucidità di una lunga carriera reggono comunque il film, piacevole dopo tutto, grazie ad alcuni momenti ispirati. De Sica (che lavorò con Avati in "Bordella" più di trent'anni fa), se ben diretto dimostra qualcosa, come altre volte, ma nulla da esaltare; Nicola Nocella, incontrato da Avati su una panchina del Centro Sperimentale a Roma, è una piacevole sorpresa e un ottimo esordio; la Morante, anche alle prese con un personaggio hippy fuori tempo e stralunato, si abbandona come di frequente agli eccessi di una nevrosi latente, un isterismo irritante; infine, Zingaretti, una spanna sopra tutti, è la solita conferma di un attore solido e sempre soddisfacente.
Il merito di Avati - i cui film sono sempre e comunque piccoli eventi interessanti - è di coltivare ancora un gusto per il cinema sincero, onesto, d'altri tempi, un tipo di commedia malinconica, di personaggi e di contenuti, che rifiuta gli eccessi e dà la precedenza alla narrazione. Ma la messa in scena di questa mediocrità contemporanea, se satira sociale doveva essere, è mancata proprio nel momento di puntare il dito, di prendere una posizione decisa. Occorreva forse un dente più avvelenato, un umorismo più corrosivo per restituire la (dis)umanità dei personaggi.
25/02/2010