"Su ogni cisto da qui al mare c'è un po' dei miei capelli"
(Canto del servo pastore)
"Faber in Sardegna" è un documentario dall'impianto convenzionale, dove immagini di repertorio si alternano a interviste. Diremmo di stampo televisivo, in un senso nobile e non denigrativo, se ancora possibile. Fra gli intervistati, persone come il fattore Filippo Mariotti, con il quale Fabrizio De Andrè sviluppò un rapporto ben più amichevole che professionale, e il sacerdote Salvatore Vico, la cui vicinanza al cantautore testimonia di un'umana intimità che prescindeva dalle convinzioni religiose. Sono testimonianze umili, alle quali si affiancano quella di Dori Ghezzi, e quella meno scontata dell'amico Renzo Piano (i cui interventi, sia pur interessanti, non appaiono però sempre congruenti con il rapporto fra De André e la Sardegna). Largo spazio è poi concesso ad alcuni frammenti di esibizioni live di vari cantanti e musicisti presso l'Agnata, la dimora gallurese di De André, nel corso dei festival "Time in Jazz", dal 2005 al 2011.
Era interessante l'idea di approfondire il rapporto tra "Faber" e la Sardegna: un aspetto preciso e circostanziato, assai importante, della vita di un uomo di cui è stato raccontato tanto. Il documentario di Cabiddu allestisce un ritratto vivo e toccante quanto basta, genuino e capace di emozionare: in ciò è un contributo onesto, oltre che un bel regalo ai fan. Tuttavia, occorre riconoscere che del rapporto con la Sardegna non si approfondisce più di quanto già noto. E la visione della Sardegna si limita sin troppo all'Agnata. Sembra poi che il rapporto con l'isola sia nato con l'acquisto e la paziente rimessa in sesto di quel decrepito "stazzu" che diverrà la curatissima e amatissima Agnata, nella seconda metà degli anni '70. In realtà, erano anni che Fabrizio frequentava l'isola: possedeva una casa a Portobello di Gallura dove fra l'altro, nel corso di un soggiorno nel 1974, compose insieme a Francesco De Gregori gran parte dei brani confluiti nell'album "Volume 8". In "Faber in Sardegna", questa fase non viene nemmeno menzionata, e in generale, oltre i confini dell'Agnata, poco si scorge della Sardegna, eccezion fatta per il noto episodio del sequestro che ispirò "Hotel Supramonte".
Il film restituisce comunque un bel ritratto di Fabrizio, centrato sul rapporto con una terra, con la sua popolazione più umile, e con gli animali (le vacche allevate, di una razza francese adatta al clima non mite dell'entroterra gallurese). E' l'immagine di un uomo assolutamente calato nella sua professione di allevatore e fattore, appresa sui libri, da autodidatta meticoloso e appassionato. E anche se sono scarsissime le immagini di repertorio con lui presente, sono sufficienti le testimonianze raccolte a dir qualcosa del suo temperamento e del suo stile di vita (nottate passate in piedi, a leggere, a comporre, o ad assistere il parto di un vitello). Ad esserci restituita, insomma, è la bella immagine di un uomo che prediligeva una vita a contatto con la natura, appartata dal consesso moderno e urbanizzato.
E' anche apprezzabile che alle musiche originali non sia concesso spazio esorbitante. Ascoltiamo soprattutto brani dell'album sardo per eccellenza (il c.d. "Indiano"), che accompagnano le immagini di una Sardegna agreste e aspra, silvana, più invernale che estiva; spesso innevata.
Tanto spazio è preso dai concerti celebrativi all'Agnata. Il materiale, di grande interesse per l'appassionato, finisce tuttavia per acquisire un peso eccessivo perché "fuori tema" al di là della location. Alcune esibizioni in particolare si ascoltano comunque con vero piacere: ad esempio quelle strumentali di Danilo Rea e Paolo Fresu (la voce di De André è talmente coessenziale alle canzoni, che interpretazioni pur interessanti come quelle di Ornella Vanoni o di Morgan non fanno che aumentare la voglia di ascoltare l'originale. Forse solo Cristiano De André, il cui timbro si avvicina in modo impressionante a quello del padre, è in grado di restituirne le vibrazioni).
Al documentario del 2012, un mediometraggio di 58 minuti, è stato affiancato per l'uscita in sala un estratto dai concerti tenuti al Teatro Brancaccio di Roma nel febbraio 1998 - in realtà di facile reperibilità - che però con la Sardegna non c'entrano nulla. Concerti bellissimi (che sarebbe opportuno godere per intero), dall'altissima qualità artistica (ricchissime le strumentazioni utilizzate dai tanti musicisti) che permette di scoprire l'eccezionale perizia di Fabrizio anche come compositore.
Sulla locandina, per ragioni commerciali, questa esibizione viene spacciata come "l'ultimo concerto": ma è vero solo in senso allargato al tour. Nemmeno si tratta infatti dell'ultimo concerto romano: quest'ultimo si tenne nel luglio di quell'anno - e vi partecipò l'autore di questa recensione. Il concerto di luglio - costretto in una location assai improbabile (un piccolissimo campo sportivo) dalla penuria di spazi per la musica a Roma prima dell'inaugurazione dell'auditorium di Renzo Piano - iniziò con forte ritardo, a causa di problemi tecnici: De André ne approfittò per lamentarsi, affermando che se non ci fosse stato un cambio amministrativo, non sarebbe più tornato a suonare a Roma. Purtroppo, davvero non tornò.
cast:
Fabrizio De André, Dori Ghezzi, Cristiano De André, Renzo Piano, Filippo Mariotti, Franco Macciocco, Salvatore Vico
regia:
Gianfranco Cabiddu
distribuzione:
Microcinema
durata:
58'
produzione:
Clipper media
sceneggiatura:
Gianfranco Cabiddu
fotografia:
Enzo Carpineta
montaggio:
Letizia Caudullo
musiche:
Fabrizio De André